Se “theologia gaudia beatorum amplificat”
In margine all’ultimo testo di Andrea
Grillo “Se il sesso femminile impedisca di ricevere l’ordine”. Ventiquattro
variazioni sul tema
Umberto Rosario Del Giudice
Il bello e buon uso del lavoro intellettuale
Il sottotitolo che rimanda alla forma dei componimenti musicali e la lettura dell’ultimo volume di Andrea Grillo mi hanno fatto pensare agli effetti della musica elencati nel De inventione et usu musice scritto a Napoli tra il 1473 e il 1474 da Giovanni Tinctoris[1]. Tra gli effetti elencati[2], il terzo sentenzia che con la musica “la gioia dei beati si amplifica” in modo “onorevole e dilettevole” poiché essa stessa è “deliziosa” e “onesta”. Da qui il titolo di questo breve intervento. Non solo la musica ma anche il buon lavoro intellettuale apre il cuore.
Il testo di Grillo, presentato a mo’ di
composizione (tema, variazioni e ripresa), è un esempio di fatica intellettuale che
davvero gratifica le tensioni di chi, per servizio e per mestiere, si occupa di
teologia. E una buona “teologia allarga il cuore” e apre gli occhi.
Rimandando alla recensione che sarà
pubblicata prossimamente in Apulia Theologica (rivista della Facoltà
Teologica Pugliese), vorrei qui offrire una sintesi di alcuni punti preziosi
contenuti nel volumetto di Andrea Grillo, “Se il sesso femminile impedisca di ricevere l’ordine”. Ventiquattro
variazioni sul tema (Cittadella 2023, 202 pp.). Tutto il testo appare prezioso non solo
perché apre a prospettive che vanno sviluppate e che richiedono una riflessione
profonda ma anche perché esprime l’imprescindibile necessità di un magistero
teologico che non rimanga legato agli argomenti indicati dalle dichiarazioni
ufficiali ma che sia capace di essere se stesso ovvero di esercitare il
servizio di verifica, con metodo, delle argomentazioni e delle logiche.
Il testo, sebbene si presenti come
una rilettura di alcuni articoli pubblicati sul blog “come se non”, offre anche alcuni nuovi spunti (ad esempio parte della var. XX, tutta
la var. XXIII e altre parti, oltre che “tema” e “ripresa”) a cui va aggiunta la
XXIV variazione a mo’ di nota bibliografica.
In genere, le “variazioni”, secondo
il linguaggio dei componimenti musicali del quale l’Autore è pure saggio
cultore, dal Quattrocento musicale, sono “abbellimenti” rispetto alla esecuzione
del tema portante. Qui però le variazioni appaiono non come semplici ornamenti: mostrano un “virtuosismo” (per rimanere nel linguaggio musicale) che va
riconosciuto (poiché è giusto riconoscere i “carismi”) e che conduce a una
metodologia teologica e a una logica sistematica da non disperdere.
L’Autore, non a caso insignito dall’European
Society of Catholic Theology del Premio per il “Libro teologico dell’anno 2019-2020” per uno studio sull’Eucaristia, con questo testo sembrerebbe passare dall’ambito dell’iniziazione (e
formazione) a quello del servizio ecclesiale. In realtà, non si tratta di
transitare ad altri temi (comunque già affrontati altrove) ma di un lavoro continuo sul vasto mondo della sacramentaria condotto
con rigore e precisione. Così, per il sacramento dell’ordine, il delicato tema
della relazione tra “sesso femminile” e “ordine sacro” è affrontato
evidenziando l’anacronismo di alcune posizioni e la continuità di alcuni dati
dottrinali, evitando la confusione tra dati storici e dottrine che con la “rivelazione”
non hanno nulla da spartire. E in questo senso, il testo presenta vari aspetti
fondamentali rispetto alle relazioni tra metodo e logica, sistematica
e sacramentaria, dottrina e storia, magistero e
tradizione.
Aspetti fondamentali
Vorrei qui brevemente presentare questi
binomi secondo una lettura trasversale per ribadire, con l’Autore e secondo
l’Autore, alcuni principi che vanno anche oltre l’oggetto del testo (di cui
appresso cito le pagine) sebbene ripresi nel contesto del tema presentato.
Metodo e logica: è chiaro che il metodo teologico non può essere condizionato dalla sola
difesa delle dichiarazioni del magistero gerarchico. Una tale via non sarebbe
un “metodo” per cogliere realtà, natura, qualità dell’oggetto da studiare;
sarebbe una forma di servilismo intellettuale buono solo a dipendere e ad
esprimere in varie articolazioni ciò che il magistero gerarchico stabilisce. Al
contrario, il metodo si deve fondare sulla verifica delle fonti e sulla capacità
di discernimento che «può permettere alla Chiesa di superare quella rigidità
che spesso nasce dalla paura e dal pregiudizio» (p. 23). La teologia non è
chiamata ad affinare strategie di difesa per conservare una dottrina. Se il
magistero teologico si limitasse a difendere “dichiarazioni di dottrina” raggirerebbe
il suo munus e, così facendo, tradirebbe la Chiesa e il magistero
gerarchico. Credo che questo debba essere chiaro perché spesso si accolgono le
riflessioni di teologi con la “categoria del sospetto”, mentre non ci si
accorge che molte parole perdono il proprio ministero docente nel riciclare posizioni
stantie e mortificando intelletto e fede. Riproporre e riarticolare la parola
del magistero gerarchico fa parte della funzione della teologia: ma è solo una parte; per questo
non può certamente essere assunto a metodo generale. Anche a causa di un
frainteso esercizio della autorità del magistero gerarchico, spesso si confonde
l’autoreferenzialità ecclesiale con la fedeltà alla tradizione: ed è il motivo
per il quale alcuni guardano con sospetto anche alle indicazioni di Amoris lætitia che ha aperto a nuove prospettive (cfr. p. 21). Il discernimento, per il
metodo teologico, non va inteso come semplice strumento per aumentare “strategie
di inclusione” allontanando sviluppi (cfr. p. 22). Nella fattispecie, il
discernimento vale come “cambio di paradigma” (cfr. pp. 117-118) e di verifica
delle possibilità di attribuire alle donne l’esercizio di un ministero (cfr.
pp. 113-114) al di là di una mera partecipazione ad una forma attiva e
istituita ma “non ordinata”. La ricchezza che pure conserva e propone la
differenza al femminile per la prassi ecclesiale è tale se accolta “nella
ordinazione”: dato che va verificato senza ambiguità. Un metodo teologico che
permanga nell’impossibilità aprioristica di verificare l’oggetto di riflessione
non si può dire “metodo” e non può essere “teologico”. Per questo è evidente
che il discernimento non vive senza metodo scientifico e congrua logica: discernimento,
metodo e logica, se fatti lavorare all’unisono, sono capaci di offrire
una verifica che sia insieme storica, antropologica, culturale
e pastorale. Sono approcci metodologici che possono garantire il
superamento di quel difficile rapporto tra Chiesa e mondo troppo spesso intravisto
ancora attraverso la lente delle reazioni al modernismo (cfr. pp. 39-40) da cui
scaturiscono stili di riflessione teologica troppo radicati nella difesa di
dottrine e di dottrine solo difese. Una “reazione” pericolosa poiché spesso le
dottrine che oggi si difendono con tutto il vigore intellettuale domani possono
rivelarsi completamente infondate. È il caso di quei teologi che, come ricorda
l’Autore, a metà ‘800 «perdevano il loro tempo a trovare giustificazioni
teologiche per la schiavitù» (p. 29).
Non vi è dubbio che la ricerca
teologica viva anche di passione; ma se questa sostituisce completamente il
metodo di verifica e di ricerca, le logiche che ne possono scaturire diventano
infondate e irrilevanti, e, a tratti, pericolose.
Questo è un primo dato che si può
agevolmente percepire dalla lettura del testo.
Sistematica e sacramentaria: una delle sviste dogmatiche che il testo evidenzia è quella della
separazione definitiva tra conformazione a Cristo capo e conformazione
a Cristo servo (cfr. p. 19). In questo modo la differenza tra “sacerdozio” e “ministero”
che pure giustifica la struttura dottrinale odierna del Catechismo e del
Codice di diritto canonico in riferimento alla necessità dell’esercizio
della funzione di Cristo capo per giustificare la potestà di governo e
la gerarchia, perde la saggezza che la tradizione chiede di conservare: vale la
pena ricordare, infatti, che chi presiede il culto, all’interno della
tradizione cristiana, esercita un autorevole ruolo allo stesso modo di chi
anima la carità. Se servizio ai poveri, alla parola, alla mensa, e presidenza
della mensa vengono decisamente a trovarsi in una posizione radicalmente
opposta, la decisa separazione tra ministero e sacerdozio continuerà a produrre
distinzioni di una società di ineguali che separa e perpetua diverse “dignità”.
Tema che va affrontato e rielaborato per tutta la sacramentaria. Per il tema in
oggetto però non basta un’ambigua apertura al ministero di un “diaconato
femminile” quasi come se si potesse “reintrodurre” un ministero diaconale “secondario”,
di scarsa importanza, un tempo riservato alla ministerialità funzionale delle
donne (così Menke, p. 26). Il riconoscimento passa attraverso la valorizzazione
della capacità di autorità piena delle donne.
A questo va aggiunto che, se la
“logica della rappresentazione sacramentale” è ridotta alla “qualità biologica”
dell’essere maschio (cfr. p. 126) smarrisce completamente la funzione iconica
e, direi, simbolica, della rappresentanza e della presidenza. Una riduzione
che, a mio avviso, permane in quasi tutta la sacramentaria e persiste nella
“potestà d’ordine”, sebbene in forme e con conseguenze diverse.
Accanto a queste, altra svista
evidenziata è quella di aver confuso, in questi ultimi duecento anni, “argomentazione
contingente” con “argomentazione sostanziale” mentre anche il Concilio di
Trento era riuscito a salvare la “sostanza” dei sacramenti (cfr. p. 182). Tale confusione
è palese nella costatazione che l’incapacità della donna all’ordine,
presupposto nato da contesti in cui la condizione del “sesso imbelle” (dotato
di “natìa debolezza”) era quella di puro e naturale assoggettamento all’uomo, viene
adottata quale dato con cui rileggere, sebbene inconsapevolmente, tutta la storia
del sacramento dell’ordine divenendo dottrina. Ma questi aspetti vivono in una
comunità ecclesiale (e sociale) che non avrebbe mai potuto emanciparsi da un contesto
storico-culturale in cui lo stesso magistero “pensava” finendo di produrre un
assetto “sostanziale” da un dato “contingente”. Da questo limite non era esente
lo stesso Tommaso il quale evidenzia e dichiara esplicitamente i motivi dell’incompatibilità
tra “sesso femminile” e “ordine”: la naturale sottomissione e l’incapacità di
autorità. Tommaso raccoglie un “dato naturale” presupposto all’epoca. E vivendo
nella storia e nella cultura è giusto ipotizzare che mai Tommaso si sarebbe
sognato oggi di difendere una tale dichiarazione avendo, nel frattempo, la
Chiesa riconosciuto, quale segno dei tempi (cfr. p. 110-111; 134-135), la capacità
all’autorità pubblica della donna nello spazio pubblico. Il testo, dunque,
aiuta ad apprezzare la grandezza del genio di Tommaso colto nel suo contesto
storico e capace di staccarsi da quel metodo filosofico che lo precedeva e che
confondeva piano ontologico col piano gnoseologico. Tommaso supera l’idealismo
gerarchico attraverso l’analisi della realtà culturale. Anzi: «Tommaso, in
tutta questa vicenda, conserva un primato: parla chiaro, non nasconde i suoi
argomenti e comunque distingue accuratamente discorso antropologico e discorso
teologico» (p. 94). Se la sacramentaria e la sistematica non saranno capaci di
offrire modelli meno ambigui, le letture approssimative e decontestualizzate di
Tommaso e di tutta la tradizione cristiana rimarranno i presupposti del Catechismo
e del Codice, rendendoli ambigui. Grillo ci aiuta a riprendere la
tradizione teologica nel solco di Tommaso e pone una questione: «Se Tommaso
d’Aquino ha potuto avvalersi della libertà di attribuire a sé e alla tradizione
questa elasticità autorevole, perché noi dovremmo sigillare noi stessi in una
“negazione di autorità” e in una “statica ministeriale” che ci renderebbe
schiavi di una tradizione così ridotta ad un ossequio troppo formale ad una
serie ingente di pesanti pregiudizi?» (p. 58).
Da questo si deduce che, se la
sistematica riduce tutto il simbolico a immediatezza iconografica (e
allegorica), perde ogni capacità di proporre, introdurre e formare alla logica
sacramentale. Il che vuol dire perdere la capacità di guidare alla e nella
esperienza di fede.
Dottrina e storia: è evidente che il delicato equilibrio tra storia e dottrina rimane un
punto fondamentale per la ricerca teologica. Grillo ci aiuta ad approfondire la
differenza tra profilo storico e profilo sistematico (var. XI, ma anche pp. 30;
77 e altre) ricordando le parole di Romano Guardini il quale scrive:
«Nel medesimo oggetto […] vi è un
divenire e un essere, un mutarsi e un persistere, un effettivo e un vincolante.
Al primo è orientata in modo particolare la ricerca storica, al secondo quella
sistematica. Esse quindi si completano a vicenda nell’oggetto e nel metodo.
Ciascuna ha bisogno dei risultati dell’altra come impulso e come autoverifica.
Senza la storia, la sistematica corre il pericolo di costruire
pregiudizialmente e in modo arbitrario. Essa deve quindi appropriarsi dei
risultati storici, e su di essi misurare e rettificare i propri. Senza
sistematica, d’altro canto, la ricerca storica si perde nel flusso del meramente
fattuale; i suoi concetti divengono confusi e le sfugge quanto vi è di
stabilmente valido. Al contrario, i concetti e le linee sistematiche la aiutano
a mantenere un ordine interno» (p. 100).
Appare evidente che la metodologia teologica
debba riconoscere e valutare la integrazione tra forma storica e forma
dottrinale verificando continuamente l’una e l’altra. La verifica dell’una
sarà la verifica dell’altra, e viceversa. Se una dottrina regge su di un
presupposto storicamente non più congruo (come il caso della schiavitù, della
pena capitale, dell’incapacità naturale della donna all’autorità…) è chiaro che
la sistematica deve distinguere e riconoscere la radice della dottrina; al
tempo stesso, se al di là della storia i fondamenti dottrinali vanno
rafforzandosi, ciò significherà che la dottrina avrà bisogno di uno sviluppo
ulteriore. Questo rimando tra dottrina e storia è imprescindibile per la
elaborazione di una sistematica non ambigua e per un modello ermeneutico ed euristico
chiaro. Grillo lo ricorda quando dichiara che «il rapporto tra storia e
sistematica deve essere adeguatamente calibrato. Se usiamo testi antichi, medievali
o moderni, dobbiamo collocarli nel loro contesto e metterli in rapporto con i
principi sistematici elaborati, anch’essi, lungo i secoli e differenziati per
argomentazioni e prospettive» (p. 42).
È chiaro, dunque, che scienza storica
ed elaborazione sistematica devono integrarsi pur rimanendo nell’ambito delle
proprie peculiarità poiché «la storia – scrive Grillo riprendendo la riflessione
di Guardini – ci dice ciò che è stato, ma solo la sistematica può dirci ciò che
deve essere» (p. 61). Per questo, vanno rigettate tanto le sistematiche che non
tengono conto delle indicazioni della scienza storica (e socio-culturale)
quanto quelle argomentazioni che si autodifendono in un
narcisistico “si è sempre fatto così”. La verifica storico-culturale
(che deve individuare ciò che è contingente, ovvero ciò che, sebbene non
superfluo, è «sottoposto a condizioni storicamente mutevoli», cfr. p. 114, nota
1) deve produrre per la sistematica la sostenibilità dei principi e non li deve
giustificare: altrimenti, la sistematica si riduce a precedenti storici. Il
pericolo inverso sarebbe ridurre la sistematica a ricorsi storici o a
storicismo.
La ricerca assidua dell’equilibrio e
della chiarezza tra storia e dottrina è un compito non secondario.
Magistero e tradizione: sul tema del testo, il magistero ha già offerto alcune aperture rispetto, ad
esempio, alla possibilità del diaconato femminile (var. I). Nella “variazione
I” appare chiaro che nel ventesimo secolo le tensioni tra “blocco della
tradizione” (cfr. p. 76) e “aperture” hanno dovuto fare i conti con l’approfondimento
della possibilità dell’esercizio effettivo dell’autorità ecclesiale della donna
anche solo nel grado del diaconato. La tradizione è la comunità che incarna e,
per questo, interpreta la Scrittura. La consapevolezza chiara per il teologo è
quella che «la Chiesa da sempre è stata coinvolta in questo genere di processi
ermeneutici complicati» (p. 9). E il magistero gerarchico è dentro (non fuori)
la tradizione... Né si può affermare che il rapporto del magistero con la tradizione
passa solo attraverso la “volontà istitutrice” di Gesù; sul rapporto tra donna
e ministero lo indica proprio il silenzio scritturistico e non sono sufficienti
le argomentazioni di deduzione. Infatti, va riconosciuto che l’argomentazione
per la quale «“se Gesù avesse voluto ordinare le donne, lo avrebbe fatto. Se non
lo ha fatto è perché lo ha escluso”» presenta una struttura logica che si può
facilmente capovolgere: «“se Gesù avesse voluto escludere le donne dalla
ordinazione lo avrebbe detto. Se non lo ha detto, significa che non le ha
escluse” (p. 83). Se il magistero gerarchico assume un atteggiamento «sempre
più difensivo, arroccato e diffidente verso ogni possibile novità nell’esercizio
dell’autorità ecclesiale» (p. 17) permane nel rischio dell’autonegazione e
dell’immunizzazione agli sviluppi poiché tenderebbe ad affermare se stesso
paralizzando al contempo la tradizione. Gonfiando, infatti, la dottrina solo
con l’autorità e bloccando ogni sviluppo (e, ancor peggio, ogni dibattito), il
magistero gerarchico incorrerebbe nella negazione della tradizione, e quindi
nell’autonegazione, poiché la funzione della gerarchia è quella di garantire la
sana tradizione nella quale si dà anche chiaro e possibile sviluppo. La fedeltà
alla tradizione non va confusa l’autoreferenzialità ecclesiale. Per molti i
confini di tale la confusione rimangono ignoti. Al contrario, diventa sempre
più indispensabile recuperare la relazione “originaria” tra Vangelo ed
esperienza (cfr. p. 62). Anche per questo la strategia di negarsi autorità appare da
una parte l’autonegazione del magistero gerarchico ma dall’altra l’autoaffermazione
clericalista del potere (cfr. p. 76) che esclude dall’autorità le donne senza
ulteriori giustificazioni (cfr. p. 50) riconfermando le “competenze classiche”
(cfr. p. 63). Difatti, «la radice dell’impedimento non è dogmatica, ma culturale»
(p. 81) e tale radice va riconosciuta. Questo ci aiuta a ricordare che la
relazione tra tradizione e magistero non può svilupparsi in un clima
apologetico e ambiguo o solo con argomentazioni di autorità. Lo ricorda Tommaso
stesso: «se noi risolviamo i problemi della fede col metodo della sola
autorità, possediamo certamente la verità, ma in una testa vuota» (citato a p.
61). Se il magistero non riflette sugli sviluppi dottrinali rischia di non
distinguere tra “la sostanza dell’antica forma del depositum fidei” e la
“formulazione del suo rivestimento” (cfr. p. 145). E al magistero teologico tocca
offrire al magistero gerarchico verifica e attenzione per equilibrare
“sostanza” e “rivestimento” per evitare equivoci e approssimazioni. Il
magistero gerarchico deve tutelare, aiutare e sostenere la tradizione: ma se si
autonega o si autoimpone rischia di arroccarsi sulla piramide della gerarchia e
perde la vitalità del proprio munus docendi.
Conclusioni e auspici
Il testo di Grillo, dunque, va
raccomandato alla lettura e non solo in riferimento al tema dato ma anche
perché offre rimandi importanti che equilibrano i binomi succitati e di cui ho
offerto solo una bozza.
La prospettiva teoretica rimane del
tutto ragionevole ed evidenzia quanto diventi sempre più insostenibile proporre
solo argomenti di autorità senza l’attenzione dovuta alla intelligenza e alla fede.
Il testo, in conclusione, ripropone
un compito assai delicato della teologia contemporanea: circoscrivere e
chiarire anziché definire e sentenziare.
È dunque un testo che raccomanderei a
tutti: teologi, cultori, donne e uomini interessati; e, non ultimo, lo
raccomanderei ai pastori i quali hanno davvero un gran da fare per non tralasciare
percorsi di riflessione circa una delle tante questioni aperte della prassi e
della vita della Chiesa.
Un testo che aiuta a credere con
immaginazione, pensare con inquietudine e riflettere con incompletezza e che
serve a non chiudere gli occhi sulla e dentro la Chiesa e a non abbandonare la testa
e il cuore in (una falsa) pace.
[1] Il
teorico fiammingo Johannes Tinctoris è attivo a Napoli negli anni ‘70 del ‘400
a servizio di Ferdinando I d’Aragona della cui figlia Beatrice è pedagogo.
[2] Cfr. Libro 1, cap. V. Il primo
e il secondo effetto si riferiscono a Dio e sono Deum delectat (rallegrare
Dio) e laudes Dei decorat (onorare le lodi di Dio). Gli altri si riferiscono
alla Chiesa, a opere di misericordia, a effetti estetici in generale.
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