Omelie tra intelligenza artificiale e intelligenza rituale

 

 
Se l’intelligenza artificiale compone omelie che potrebbero essere pronunciate da qualsiasi presidente in una qualsiasi assemblea liturgica, la questione non è se l’intelligenza artificiale (IA) possa prendere il posto dei ministri della parola; la vera urgenza e se e come possa essere recuperata la saggezza dell’intelligenza rituale (IR).
 

 


Umberto Rosario Del Giudice

 

È stato pubblicato, ed è girato su alcuni social, un tentativo condiviso da Alberto Carrara dal titolo Ho chiesto a una intelligenza artificiale di scrivere l’omelia di oggi. Il pezzo offre tanto l’omelia artificiale e una nota, che riprendo di seguito, a cui aggiungo brevi considerazioni.

Ecco la nota:

 

«GPT è un predicatore discreto. Conosce il passaggio del Vangelo e lo commenta discretamente.

Mi sembra però che quello che dice sia piuttosto noto, talvolta scontato. Manca di attrattiva. D’altronde non conosce né chi deve tenere l’omelia né i destinatari, designati con indicazioni molto, troppo generiche.

Ma è possibile comunque un confronto onesto. Questa “anima” che sembra mancare a una Intelligenza Artificiale c’è sempre, o per lo meno, spesso, nelle omelie delle nostre chiese?

 

Alberto Carrara»

 

Omelia e azione rituale

L’omelia non è assimilabile ad un discorso o ad una lezione anche se ha tratti in comune.

Certamente essa serve anche per argomentare e per insegnare ma non può essere ridotta né a sproloqui preconfezionati né ha ripetizioni catechetiche.

Al ministro della parola non è chiesto solo di esortare, di formare, di insegnare.

Il “ministro” della parola è innanzitutto un “uditore” della parola (ma non nel senso della prospettiva rahneriana). Il ministro, infatti, non è solo un “uditore” di una “parola indefinita sebbene avvertita in modo anonimo e trascendentale”. Il ministro della parola è tale in quanto è colui che “ascolta” e “parla” nel contesto di un’azione rituale, ovvero, nel contesto di una presenza costituita da battezzati riuniti in preghiera e che noi chiamiamo “assemblea liturgica”.

Potrebbe apparire strano ma il primo attore della parola omiletica è l’assemblea: se la comunità riunita in preghiera non attende e non crea uno stile di ascolto (fin dai riti di introduzione) l’omelia è quasi condannata a prendere un carattere catechetico.

Dalla doppia dinamica, ascolto-ripresa della parola e disponibilità-attesa nella fede, sorge l’omelia.

In altre parole, l’omelia è un’azione rituale perché immersa nella dinamica liturgica e nell’orientamento assembleare; la fonte dell’omelia non è prima di tutto la ripetizione di strutture omiletiche. Il luogo  proprio dell’omelia è l'interosggettività rituale. E questo vale per ogni azione rituale. Come un dispensatore automatico di penitenza e di parole di perdono non potrà mai sostituire il luogo intersoggettivo del lungo cammino penitenziale così un’omelia artificiale sarà in grado solo di replicare la dottrina ma le dinamiche e le parole dell’azione rituale, che pure l’omelia è.

L’omelia ha bisogno di vivere nel e del contesto assembleare.

Questo non significa che la parola debba essere lasciata all’improvvisazione. Il ministero della parola non concede improvvisazioni isteriche. La disponibilità immersiva nella preghiera liturgica dell’assemblea non concede di evitare preparazione né di “lasciarsi andare alla emotività”. La parola omiletica ha sempre bisogno di preghiera, di studio, di meditazione per poi ritrovarsi nello studio e nella preghiera. Studio, meditazione e preghiera sono presupposti della parola omiletica ma non potranno mai sostituirla.

La parola omiletica si riveste di modalità e forme che aiutano la comunicazione tra tutti.

I codici della parola omiletica rispettano i codici di comunicazione con e per gli uditori presenti. Altrimenti l’omelia più che essere un codice comunicativo rischia di rivestirsi di quell’accezione negativa che tutti conosciamo: non attivando comunicazione e riflessione per la lode in atto (in quanto azione liturgica) diventa moraleggiante, monotona e fastidiosa.

Preparazione, intelligenza emotiva e buona parola sono i presupposti dell’azione rituale che noi chiamiamo semplicemente “omelia”.

 

Intelligenza rituale

Essere sensibili nell’assemblea e per l’assemblea è una delle caratteristiche imprescindibili dei ministeri. Se l’omelia non nasce dal contesto immediato rischia di essere tanto intelligente quanto inutile. L’intelligenza dottrinale deve sposare quella emotiva. L’intelligenza dottrinale può parlare solo di idee. Per questo l’intelligenza dottrinale rischia di apparire come un’intelligenza artificiale. L’intelligenza rituale sa sposare intelligenza dottrinale e intelligenza emotiva: intelligenza rituale riesce a mettere insieme ortodossia, ortoprassi e orpopatìa. Per questo un ministro della parola deve forarsi non solo sui prontuari biblici ma anche attraverso la capacità di accogliere e accogliere le possibilità e le necessità dell’assemblea nel rito in atto. L’ intelligenza rituale chiede una buona preparazione dottrinale ma anche una fine capacità relazionale (che spesso e quasi riduttivamente chiamiamo “spiritualità”).

Chi predica (o ha predicato) sa che, alla preparazione generale e prossima alla omelia, bisogna aggiungere quella immediata, che nasce nel cogliere emotività collettiva, bisogni comunitari, speranze o crisi assembleari e/o sociali del contesto in cui si parla. Chi predica (o ha predicato) sa che spesso discorsi omiletici, sebbene preparati con cura, lasciano presto il posto a parole “intelligenti”, che sgorgano dalla immediata necessità e dalla immediata direzione che gli occhi, le attese, le gioie, le lacrime, la disponibilità o anche l’indifferenza dell’assemblea suggerisce.

In queste settimane ho partecipato a riti funebri. Riti nei quali spesso ci si accorge che la parola omiletica e lo stile oratorio lasciano perplessi per mancanza di intelligenza dottrinale ed emotiva.

L’esempio più lampante è quando il ministro crede di poter usare in un rito funebre strutture omiletiche uguali tanto per il ricordo di un centenario morto di vecchiaia quanto per quello di una giovane madre compianta dai suoi figli appena maggiorenni. Se vengono usate in modo indifferenziato le stesse parole e le stesse strutture omiletiche, l’intelligenza delle parole è già persa. Quanto si cerca nella dottrina indifferenziata o nei commenti biblici specializzati la pienezza dell’intelligenza omiletica, ogni parola perde la presa sulle intelligenze presenti.

Se l’IA (l’intelligenza artificiale) risulta così familiare è lecito chiedersi se l’IR (l’intelligenza rituale) non si sia persa nei meandri della catechetica e del moralismo.

La parola omiletica è anche richiamo agli usi e ai costumi; la parola omiletica è anche istruzione ed educazione; ma se a queste dimensioni non si aggiunge la capacità della parola poetica, emotiva, relazionale, e altre varie forme di codici verbali, l’intelligenza della fede, perdendosi oltre il rito e non nel rito, rimane al solo livello noetico e diventa “stantìo”.

 


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