La “condizione” di essere donna nel Codice tra natura e norme


 

Nel Codice esiste una “condizione” per le “persone fisiche” che, secondo alcuni autori, per le donne si traduce in “condizione di natura”. Si rimanda alla “condizione naturale” per dire la “condizione giuridica della donna” nel Codice, ma non si argomenta. Due possibilità: o i teologi chiariscono il perché o qualche canone dovrà essere rivisto. Appare evidente una questione del genere femminile e della sua condizione nel Codice.

 


Umberto Rosario Del Giudice

 

Gli interventi che Andrea Grillo ha pubblicato negli ultimi giorni sul suo blog “Come se non rilanciano, alla luce dell’Instrumentum laboris per la prossima sessione del Sinodo, la questione della relazione tra “sesso femminile” e “ordinazione”, tra “dignità della donna” ed “esercizio pubblico dell’autorità da parte della donna”. Anche un ultimo post di queste ore (Ministeria propter homines et ministeria per homines) rilancia una rilettura della relazione tra “ordine”, “ministerialità”, “autorità” e “sesso femminile” alla luce di una possibile riflessione della questione “en compagnie de Thomas”, senza pregiudizi storici e filosofici.

Nell’attesa di leggere il suo “Se il sesso femminile impedisca di ricevere gli ordini”. 24 variazioni sul tema (Cittadella Editrice), vorrei riprendere alcuni dati sia per chiarire a me alcuni aspetti giuridici sia per aprire ipotesi di ricerca e di comune riflessione.

Il canone che riprendo è il 1024: «Sacram ordinationem valide recipit solus vir baptizatus» (riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile).

Si parla dunque di “ordinazione sacra” e non immediatamente di solo “ordinatio ad sacerdotium”. Nel caso in futuro si dovessero accogliere donne nell’ordine sacro, anche solo come diaconesse, questo canone andrebbe modificato.

L’argomento è complesso e merita altro spazio e approfondimenti: provo qui ad articolare e chiarire alcuni passaggi.

 

Distinzioni giuridiche e categorie dottrinali

Rileggendo i canoni dell’attuale Codice (CIC), sarebbe opportuno principiare da alcune distinzioni.

Il CIC, dopo il disposto del can. 1024, rimanda a concetti quali “irregolarità” e “impedimento”. A questi, i commentatori aggiungono un’altra categoria, quella di “condizione”. Alcuni commentatori usano anche la categoria di “sostanza” ma nel CIC “sostanza” è una categoria mai riferita alla “persona”; in dottrina (escluso l’ambito di dottrina trinitaria; cfr. CCC 252) è poi riferita al “sacramento” e mai alla condizione naturale della persona.

Dunque, le categorie da prendere in considerazione sono “irregolarità” e “impedimento” e “condizione”.

 

Irregolarità (perpetua, ma…); impedimento (inabilità momentanea)

Il CIC chiarisce la differenza tra “irregolarità” e “impedimenti”: le prime sono “perpetue” le seconde sono da intendere come “irregolarità semplici”, cessate le quali cessa l’impedimento (cfr. cann. 1040-1041). Dall’elenco delle irregolarità risulta evidente che solo la prima (pazzia o infermità psichica) è “ex defectu” poiché tutte quante le altre sono effetti di atti qualificabili, dal punto di vista canonico, come “delitti”. Nessuna di queste irregolarità tocca la “sostanza del sacramento” poiché tutte le irregolarità derivanti da delitto potrebbero anche essere dispensabili; mentre se la “pazzia o altra infermità psichica” dovesse cessare (sic!) non sarebbe più irregolarità e aprirebbe la strada al sacramento dell’ordine “voluto” e “inteso”…

Impedimento e ciò che, in virtù di una situazione di fatto, rende una persona inabile ad un’azione (come, ad esempio, partecipare all’eucaristia, contrarre matrimonio, essere ordinati…). L’impedimento si configura come condizioni sospensive, venute meno le quali è possibile porre l’azione in modo legittimo (cfr. can. 1042). Anche queste “irregolarità semplici” possono essere dispensate (tranne quella relativa al matrimonio perché confliggerebbe con la legge ecclesiastica del celibato a meno che non si voglia dispensare dall’obbligo dell’osservanza della lege ecclesiastica o si voglia introdurre il presbiterato uxorato).

Concludendo né irregolaritàimpedimenti sono teoricamente situazione di fatto che ostacolano in modo del tutto perpetuo la ricezione dell’ordine sacro, eccezion fatta “pazzia o altra infermità psichica”.

In nessun caso, il “sesso femminile” però rientra nella categoria di impedimento o irregolarità. Questa conclusione deriva dalla dottrina stessa poiché, sebbene in presenza di irregolarità o impedimento semplice, l’ordinazione non è nulla ma rimane impedito l’esercizio dell’ordine sacro (ricevuto validamente…).

La dottrina attuale ritiene valida l’ordinazione del “battezzato maschio” e quindi è nulla la ordinazione di una donna: per questo il “sesso femminile” non può essere inteso né come irregolarità né come impedimento. Il “genere richiesto” è piuttosto “conditio et requisitus ad validitatem”, una condizione del sacramento, legato alla ricezione del sacramento e neanche la “ignoranza” di questa “condizione” può rendere valida la ricezione (ex can 126).

 

La condizione (questione codiciale)

Sia il Codex de l’17 che quello dell’83 rimandano al “sesso maschile” come necessario per l’ordinazione. Entrambi i Codici rimandano non tanto al “sesso” ma al “maschio”, ovvero “all’uomo”[1]. I due Codici non si interessano di sostanza ma di condizioni e di impedimenti. Il Codice attuale chiama poi irregolarità quegli impedimenti perpetui (…). Né il Codex del ’17 né quello attuale riferiscono direttamente di “necessità sostanziali”. In realtà, anche il battesimo più che essere “sostanza” è “condizione”, insieme al “sesso maschile” (e, secondo la canonistica, va aggiunta la condizione dell’intenzione di voler ricevere il sacramento, pena, l’invalidità).

Se Tommaso usava lo strumento dell’impedimento (in quanto la donna non aveva autorità), e se altri usavano impropriamente la categoria di “substantia” (su cui bisogna approfondire la ricerca congiuntamente agli storici e ai sacramentaristi…), i canonisti, rispetto al “sesso femminile” e alla “ordinazione sacra”, oggi sono tenuti a riflettere sulla categoria in quanto “condizione necessaria”.

 

La “condizione” necessaria

Quella di “condizione” è una categoria centrale per il tema del can. 1024.

Alcuni commentatori canonisti, ricordano che quella di “donna” è una “condizione naturale” che rientra nella “condizione canonica”. Tuttavia, continuano alcuni, tale “condizione” è palesemente subordinata alla percezione della “condizione socio-culturale” o “ecclesiastica”, tranne quella del “sesso”. Provo a spiegare con pochi esempi.

In alcune dispense di Diritto canonico è possibile leggere che il “sesso maschile” o “femminile” fanno parte della e determinano la condizione canonica della persona fisica[2].

I commentatori aggiungono che, tenuto conto che le indicazioni codiciali rispetto al “sesso femminile” sono riferite o alla natura (il matrimonio per la procreazione tra uomo e donna) o per diritto ecclesiastico (tutte le altre condizioni nascono da “istituti giuridici”), è evidente che la distinzione tra “sesso maschile” e “sesso femminile” che determina l’esclusione della donna dall’ordine sacro, fa parte della realtà che precede il diritto (sic!) poiché il sesso biologico è una realtà complessa (in cui si sovrappongono elementi fisici e psichici) ed è una condizione “naturale”. Si conclude che “per natura sua” la donna non può accedere all’ordine sacro ma senza mai dire il perché: la motivazione non si può dire perché, seguendo una logica giuridica, non c’è…

Questo evidenzia come il pregiudizio (giusnaturalista) che esclude da ogni forma di “autorità” il “sesso femminile” rimane alla base della visione giuridica di molti anche se non esplicitata. Quelli che non vogliono commentare in questo senso riprendono, citano o rinviano alla Lettera Apostolica Ordinatio Sacerdotalis, come se l’argomento di autorità giustificasse ogni rinuncia alla riflessione o all’articolazione di motivazioni almeno degli elementi giuridici.

Il canonista segna il passo davanti al sacramentarista e al dogmatico.

 

Condizioni “minoritarie” della donna nel Codice

La “condizione canonica” dal punto di vista della logica giuridica non trova giustificazioni se non in una “condizione naturale e previa” del “sesso femminile”.

Se il Codice dovesse essere modificato nel can. 1024 verrebbe meno la “condizione naturale” della donna che si contrappone “ad validitatem” alla ricezione dell’ordinazione sacra; e questo anche solo in riferimento alla ordinazione nel grado del servizio diaconale. Si dovrà sdoppiare il can. 1024 per la distinzione tra “ordinatio ad servitium” e “ordinatio ad sacerdotium”? La dogmatica e la sacramentaria ci racconteranno, non è ben chiaro con quale ulteriore distinzione antropologica, teologica, sacramentaria, i vari “perché” magari dopo che qualche canonista avrà suggerito due paragrafi per il can. 1024 (sulla scia dei suggerimenti di Winfried Aymans degli anni ’70…).

Quella della “condizione canonica per natura o per sesso” rimane una categoria che rimanda a sistemi filosofici o giusnaturalistici estranei alla mera logica giuridica. È però evidente che il Codice ne fa uso.

In almeno due momenti è chiaro che il “sesso femminile” è ancora considerato in qualche modo “condizione giuridica di minoranza”: ce lo ricordano due realtà giuridicamente rilevanti e presenti nel Codice.

Nel caso di ascrizione ad una Chiesa, i genitori di comune accordo devono indicare a quale Chiesa ascrivere il battezzato; se manca il comune assenso o accordo, l’iscrizione sarà dettata dalla appartenenza di rito del padre. Questa norma è chiaramente frutto di luoghi, di usanze, di tradizioni, in cui la scelta del “padre” è superiore alla volontà della “donna”. Eppure, fa parte di un “campo semantico” come quello del Codice in cui si disegna, anche non volendo, una condizione giuridica dell’uomo superiore a quella della donna.

Al negativo, la stessa condizione è percepibile nel can. 1089 in cui si legge che «non è possibile costituire un valido matrimonio tra l’uomo e la donna rapita o almeno trattenuta allo scopo di contrarre matrimonio con essa, se non dopo che la donna, separata dal rapitore e posta in un luogo sicuro e libero, scelga spontaneamente il matrimonio». Il canone è stato pensato certamente per assicurare, almeno dal punto di vista giuridico, la necessaria libertà della “donna rapita” che poi potrebbe scegliere di convolare a nozze col suo “rapitore”. Anche questa norma rimanda a sistemi sociali e strutture mentali patriarcali.

Rimane il fatto che il canone cita da una parte “l’uomo” e dall’altra la “donna rapita” perché, appare ovvio, non potrà mai esserci un “uomo rapito”…

Tuttavia, una norma che tutela la libertà di consenso finisce per tradire una “condizione femminile”; la donna è “tutta dipendente”, anche nel ratto. Il Codice di diritto canonico non ha ancora operato quell’attualizzazione che il Codice penale italiano ha ritenuto opportuno fare (cfr. c.p. artt. 61; 605) citando, in modo generico, “persona offesa” o “colpevole” e ascrivendo alla “violenza alla persona” o “violenza sessuale” un crimine diretto ad estorcere un consenso contro la libertà individuale non ritenendo il reato in ordine al “buon costume” ma alla “persona offesa”.

Ma il Codice sembra voler continuare, per lunga storia e forse implicitamente, a conservare il sistema della “moralità pubblica” citando la “donna rapita” e non “la persona rapita e quindi offesa”.

Cosa accadrebbe, infatti, se una “donna” rapisse un uomo?

Da giurista mi aspetterei che si traslassero i principi: non tanto la “donna” ma il “rapito” è l’offeso e quindi in pericolo e va tutelato davanti alla possibilità di estorsione del consenso.

I canonisti invece rispondono che il disposto del can. 1089 non si applicherebbe (ci fu anche un chiarimento nel 1977 della commissione che rivedeva il can. 1074 del CIC 1917…). I canonisti rispondono che non solo è raro che vengano rapiti uomini ma che nel caso si applicherebbe semplicemente il criterio di “costrizione” e il matrimonio sarebbe nullo. In altre parole, i canonisti tengono conto della “condizione di minoranza” della donna in alcune condizioni e la normano.

Sembra che la logica giuridica in questo caso traduca in astratto solo ciò che può essere reale (una donna rapita) e mai produrrebbe una norma per tutelare diritti in casi non realistici (se l’uomo venisse rapito…).

Questo ci aiuta a comprendere quanto la “condizione femminile canonica” abbia bisogno di tutela ma anche di sviluppo e valorizzazione, al di là della “natura” e delle “circostanze storiche e sociali”. Insomma, il Codice deve essere rivisto rispetto alla “condizione della donna” e alla “libertà individuale”.

Al momento, canonibus sic stantibus, la “condizione giuridica e canonica della donna” è relativa alla “procreazione” o alla “soggezione” perché “donna” dal punto di vista della “natura”.

Che poi la “condizione canonica” sia immediatamente connessa alla “condizione naturale e previa” del “sesso femminile” è davvero dimostrabile? Ho i miei dubbi e non solo da canonista.

Con asserti teologici, dogmatisti e sacramentaristi lo spiegheranno?

Intanto, pregusto le poderose e rigorose 24 variazioni sul tema di Andrea Grillo.

 



[1] Cfr. can. 968 §1 del CIC ’17.

[2] i rimandi sarebbero vari; basta citare:

Ø  il matrimonio può essere celebrato solo da un uomo e una donna;

Ø  l’età per contrarre matrimonio (l’uomo a sedici anni compiuti, la donna a quattordici pure – fermo restando i disposti delle varie Conferenze episcopali);

Ø  gli istituti religiosi accettano come membri soltanto persone di un solo sesso (questa affermazione dal punto canonico non è corretta…);

Ø  l’Ordo virginum è accessibile solo a donne;

Ø  alcune norme sono riferite solo alle donne in quanto membri di monasteri delle monache.


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