Sinodalità e ‘potestas’: inconciliabili?

 

Una Dichiarazione della Santa Sede arresta il cammino sinodale? Vuole mettere in guardia “amine scismatiche”? Grida per evitare derive democratiche o neopelagiane della Chiesa?

Per ora molto meno di tutto questo; e molto più… In gioco c’è la relazione tra primato di Pietro, potestà episcopale e radice sinodale della Chiesa e della stessa potestà di governo.

 

 



Umberto Rosario Del Giudice

 

La Dichiarazione sul Sinodo tedesco pubblicata il 21 luglio u.s. ha suscitato non poche perplessità per almeno due aspetti: da una parte, la Dichiarazione è data dalla “Santa Sede” senza che sia riportato alcun firmatario diretto; dall’altra, appare come un richiamo. Per Santa Sede, vale la pena ricordarlo, si può intendere tanto il Romano pontefice quanto la Curia ovvero, in quanto relazione con altre Chiese, la Segreteria di Stato. In ogni caso, è da escludere che papa Francesco non condivida il nucleo del messaggio.

La Dichiarazione vaticana precisa che l’iniziativa in corso in Germania “non ha facoltà di obbligare i vescovi ed i fedeli” a “nuovi modi di governo e nuove impostazioni di dottrina e di morale”. Vi è, dunque, un invito a percorrere un cammino sinodale universale.

Si badi che ci sono due livelli: uno è quello che rimanda alle decisioni non collegiali e l’altro alle questioni di dottrina e morale.

Sembra però che valga la pena soffermarsi sul primo aspetto: per alcune decisioni, infatti, sarebbe puerile richiamare un “principio di difesa di giurisdizione”, per il quale ogni vescovo decide per sé nella “propria Chiesa particolare”…

Credo sia questo il vero nodo della questione: quale potestas ha un Sinodo e quale relazione con essa la singola potestà del Vescovo diocesano?

In altre parole, oltre alle questioni singolari che potrebbero vedere la formulazione di nuove norme per la Chiesa tedesca, il vero problema è se oltre al Romano pontefice che può fare come se quelle indicazioni non gli fossero mai arrivate, anche altri Vescovi potrebbero semplicemente dire di non condividere e di andare avanti come se nulla fosse. In fondo, non si tratta di una questione di una Chiesa isolata, ma di un gruppo di Chiese particolari che vivono nella stessa cultura e nello stesso territorio nazionale (sebbene federato, nel caso).

Può davvero il Romano pontefice non tener conto delle indicazioni di un Sinodo? Può uno o alcuni vescovi di una Conferenza lasciar cadere quanto prodotto dal cammino sinodale?

La domanda a questo punto è: esiste una “potestas sinodalis”?

Dal punto di vista strettamente giuridico, la risposta è “no”: il Sinodo non ha potestà. Però, dal punto di vista ecclesiologico, la questione appare più articolata e non si può demandare ad una semplice “dichiarazione di principi giuridici”.

Si sa: il diritto deve essere “certo”. Ma il diritto canonico non può mai sacrificare sull’altare della certezza la missione e la vita delle Chiese.

 

Breve premessa: ecclesiologia e potestà

È noto come la svolta ecclesiologica del Concilio Vaticano II è racchiusa nel termine “communio”: non più una Chiesa piramidale ma una Chiesa comunionale.

È noto anche che il Concilio Vaticano II non volle escludere o sottrarre l’aspetto gerarchico della Chiesa.

In realtà, su questi due aspetti, comunione e gerarchia, molto si è discusso: lo testimonia la Nota esplicativa previa alla Lumen gentium che chiariva (e dettava) i termini in base ai quali i Padri conciliari avrebbero “votato”: sarebbe riduttivo e brusco tradurre quella Nota con un “potete votare di tutto, ma decido solo io…”.

Allo stesso modo, sarebbe non equo ridurre la Dichiarazione come una presa di posizione cieca. Ma è anche vero che essa non riesce a non apparire come un forte richiamo: un preavviso, un “attenzione, attenzione!”.

Ma verso chi? Chi deve essere “attento”?

Sotto questo punto di vista i Vescovi tedeschi sanno bene cosa devono/possono e non devono/non possono fare. Lo testimonia la loro formazione, sia quella prima della nomina che quella dedicata alla formazione per ciascun gruppo di nuovi vescovi.

A chi si rivolge, dunque, la dichiarazione?

Forse ai tanti, tantissimi, che, dopo aver lavorato nei gruppi, nelle parrocchie, nelle comunità sui vari temi sinodali si aspetteranno che, in qualsiasi modo e a qualsiasi costo, il loro lavoro non venga cestinato ma riconosciuto e valutato come base per il riordino delle strutture ecclesiali e la riformulazione di temi su costumi e fede?

L’inciso della Dichiarazione sembra voler assicurare qualche Vescovo o qualche Gruppo (forse timoroso) che, dopo il Sinodo, non vorrà essere costretto ad applicare anche nella propria Diocesi ciò che verrà deciso in e per altre.

 

La Dichiarazione è esplicita: «Per tutelare la libertà del popolo di Dio e l’esercizio del ministero episcopale, pare necessario precisare che il “Cammino sinodale” in Germania non ha facoltà di obbligare i Vescovi ed i fedeli ad assumere nuovi modi di governo e nuove impostazioni di dottrina e di morale».

Come se la Santa Sede volesse garantire la “libertà” di decisione a tutti i Vescovi.

In contrapposizione appaiono libertà del popolo di Dio e ministero episcopale, ovvero decisioni comuni e potestà ordinaria, propria e immediata del singolo Vescovo.

Per inciso: non è in discussione qui la bontà o meno delle proposte tedesche né il richiamo a questa o altra parte di “popolo di Dio”; qui va (ri-)proposta una riflessione su ciò che appare essere il vero nocciolo della questione: la “potestas”.

Tutta la riflessione, dunque, si gioca su potestà episcopale, potestà petrina e potestà sinodale. Se le prime due “potestà” sembrano chiare e nessuno discute la relazione tra esse, la vera questione si gioca sulla terza. Sembra quasi che la potestà sinodale non esista o che faccia acqua da tutte le parti.

 

Potestà sinodale: esiste?

La Dichiarazione riporta in primo piano un particolare dilemma: la potestà sinodale di cui pochi hanno scritto. Qui in breve un quadro generale.

Nell’ottica dell’ecclesiologia di comunione sarebbe auspicabile riconoscere partecipazione alla potestà sia dei singoli (i laici possono cooperare ex can. 129 §2) quanto dei Collegi.

In altre parole, se è vero che la Chiesa universale è in e da ogni Chiesa particolare allora le due forme di comunità sono dimensioni formali di un’unica realtà[1]: la Chiesa particolare con Vescovo in comunione col Romano pontefice, che presiede nella carità.

A questo punto, l’esercizio di tutte le potestà è, in ogni caso, in “comunione con quella del Vescovo di Roma”: vale a dire che la comunione col Vescovo di Roma è garanzia di cattolicità e di esercizio di potestà.

Se in questo quadro i singoli Vescovi riuniti in Conferenza o in Concilio locale concordano su qualche aspetto non essenziale della fede e della morale, essi possono “immediatamente” recepirlo nella propria Chiesa particolare come diritto proprio. Se gli stessi Vescovi condividono aspetti su usi, costumi e forme che di per sé coinvolgono o vogliono l’intervento del Romano pontefice (su questioni che il Vescovo di Roma dovrebbe garantire essere conformi alla “missione” oltre che alla dottrina), allora questi dovranno aspettare singolarmente o collegialmente la decisione del Romano pontefice.

Se, ad esempio, il Sinodo tedesco volesse abolire l’obbligo del celibato per i chierici o garantire la benedizione alle coppie di persone dello stesso sesso, sarà il Romano pontefice a rispondere se tali decisioni potranno essere accolte o meno.

Allora la questione nasce: quale potestà sinodale? Il Pontefice non dovrebbe accogliere quelle proposte che “di per sé” non sono contro la cattolicità (e contro la sua “latinità”)?

Già «la reazione apologetica alla critica dell’autorità ecclesiastica da parte della riforma protestante e alla sua contestazione da parte di numerosi filoni del pensiero moderno, accentuò la visione gerarcologica della Chiesa come societas perfecta et inaequalium»[2]; ora dobbiamo aspettarci una nuova e futura reazione gerarcologica?

Non è assolutamente auspicabile ma, forse, neanche possibile.

In conformità all’insegnamento della Lumen gentium, infatti, il Romano pontefice ha ribadito in particolare che la sinodalità «ci offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico»[3].

In altre parole, nell’ecclesiologia del Concilio Vaticano Il è fuori di dubbio che solo il Vescovo diocesano, in forza della pienezza del sacramento dell’ordine, è in possesso di tutta la sacra potestas.

È altresì fuori di dubbio che questo elemento personale, dovuto all’origine sacramentale della sacra potestas, deve sempre coniugarsi con l’elemento sinodale dell’esercizio di tale potestà, perché i due elementi sono reciprocamente immanenti l’uno nell’altro e entrambi sono costitutivi della Chiesa come comunione.

La sola sacramentalità non basterebbe all’esercizio della potestas: partecipazione e corresponsabilità diventano il luogo di tale esercizio attraverso la communio Ecclesiarum che presuppone anche la corresponsabilità di tutti i fedeli e che il Concilio Vaticano II ha posto come principio paradigmatico, o meglio, costituzionale della Chiesa.

D’altra parte, quanto la Lumen gentium ricorda le Chiese particolari (LG 13), lo fa dopo aver precisato la natura del sacerdozio comune (LG 11) e il senso della fede (LG 12).

 

 

Conclusione. Sinodo: affectus o potestas?

Il Concilio Vaticano II ha voluto articolare in forma dogmatica un concetto chiave: la pienezza della potestas è nell’ordine sacro nel grado episcopale. Questa realtà (sacramentale) per il Concilio non stride con l’altra realtà: che la Chiesa particolare riflette la Chiesa universale. Vale a dire che, oltre alla potestas (sacramentale) la cattolicità vive del rimando alla comunione visibile poiché ogni Chiesa particolare, porzione di popolo di Dio, è guidata da un Vescovo.

Tuttavia, il Concilio stesso ha voluto ribadire la storica importanza di quelle Chiese (particolari) che «durante i secoli si sono costituite in vari raggruppamenti» definendo quelli che oggi chiamiamo “riti orientali” e salva fatta l’unità, ovvero la comunione e la gerarchia.

Ma subito dopo appare un’indicazione che tuttora sembra disattesa: «In modo simile [simili ratione], le Conferenze episcopali possono oggi portare un molteplice e fecondo contributo acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente» (LG, 23). E questa stessa raccomandazione viene ripresa anche altrove.

Il Concilio, dunque, sembra suggerire che il modello sinodale e collegiale delle Chiese orientali sia una strada da seguire anche per le Conferenze “nostrane” (ovvero latine).

E poiché nella tradizione dei riti sui iuris, per l’esercizio della potestas, è importante tanto l’unità gerarchica quanto quella sinodale, si può dire che emerge una forza di governo che si potrebbe chiamare “potestas sinodalis”: in questo senso, un Vescovo oltre ad essere in comunione con il successore di Pietro si preoccuperà di essere in cammino con i Vescovi della propria “regione ecclesiastica” e con il sensus fidei di tutto il Popolo di Dio di quelle “Chiese particolari” in cui e di cui vive la cattolicità.

L’opposizione a questa realtà sacramentale/ecclesiale potrebbe rilevarsi in tre forme per ora canonicamente legali quanto dannose:

-          quella di un Vescovo contro le decisioni di tutti i Vescovi della stessa “Provincia/Regione/Conferenza”;

-          quella dei Vescovi (o una parte di essi) contro quanto indicato/proposto dalle riflessioni di tutti i fedeli sinodali;

-          quella di un Successore di Pietro che, Vescovo di Roma, neghi la particolare propensione di una “Provincia/Regione/Conferenza” di proporre nuove norme per la vita in comunione di tutte le Chiese particolari e unite, con Lui e fra di esse.

È pressocché inutile parlare di affectus sinodalis se non si riconosce, dal punto di vista dell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, anche una certa “potestas sinodalis” che magari non obbliga dal punto di vista giuridico (per ora) ma sicuramente diventa autorevole dal punto di vista della missione condivisa e corresponsabile. Tale autorevolezza non ha bisogno di canoni per essere riconosciuta: è tutta già scritta nella ecclesiologia conciliare.

La Chiesa universale per essere tale ha bisogno che ciascuna Chiesa particolare sia tale, anche quella di Roma. Ogni Chiesa particolare ha bisogno della comunione.

Così, ogni Chiesa ha bisogno dell’altra per essere se stessa e ogni potestà ha bisogno della collegialità e della condivisione poiché, nella comunione vi è quella relazionalità (sul modello trinitario) che conserva differenza, alterità e unità, e in cui ognuno può dire “noi siamo Chiesa perché siamo Chiese sinodali”, anzi “Wir sind der Synodale Weg” poiché “der synodale Weg ist die Hoffnung vieler” (noi siamo il cammino sinodale poiché il cammino sinodale è la speranza di molti).

 



[1] «Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità». LG, 13

[2] Commissione Teologica Internazionale [omissis].

[3] Francesco, Discorso [omissis].

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