Radici del Triduo e cristianesimo radicale

 


Il Triduo pasquale rimane la radice e il vertice di ogni identità cristiana. È la netta autoconsapevolezza ecclesiale di un mistero che coinvolge prima di tutto e prima di tutti, rendendo liberi di essere, per tutti, il prima e il dopo, l’origine e la fraternità, la destra del Padre che accoglie e l’amicizia donata. È l’evento radicale che distingue tradizioni e tradizione.


Dal Messale. Tavola di Mimmo Paladino per il Giovedì Santo

 

Umberto Rosario Del Giudice

 

Questi giorni “odorano” di Pasqua. Già domenica scorsa (“Domenica delle Palme”) sui vari social campeggiavano “colombe bianche” e “ramoscelli di ulivo”… Il riferimento alla “pace” in bella opposizione a ogni opposizione bellica è stato naturale; anzi, sacrosanto.

Ripensando a questa “Pasqua 2022”, i cui riti iniziano al tramonto del giovedì (quest’anno 14 aprile), non si può non pensare a quanto accade intorno a noi e, soprattutto, a quante voci, sedicenti cristiane, moltiplicano il giudizio sulla guerra.

La radicalità del contesto ci aiuta a ripensare alla radicalità della vita cristiana.



Nessun cristiano può sostenere la guerra in nome di Cristo

Nessun cristiano, a qualsiasi longitudine e latitudine può più parlare in nome del Crocifisso-Risorto con parole di sostegno alla guerra (qualsiasi guerra). Ciò che rimane è solo dolore e desolazione, silenzio doloroso e devastazione assurda.

Anzi, appare sempre più evidente che nessuna religione possa rimanere autorevole declinando parole e sentimenti belligeranti (è stata profetica la Dichiarazione del 2019)[1]; nessuna preghiera può accostarsi a invocazioni di sostegno alla vendetta, di evocazione di terrore contro “i fratelli”. Nessun “antico sacrificio” può sostituirsi alle responsabilità di Caino e di Abele rispetto a dialoghi mai cercati, mai costruiti, mai tentati e, soprattutto, rispetto alla soppressione violenta dell’altro, alla violata identità, al corpo violentato.

E appare sempre più chiaro che nessun cristiano può dirsi tale senza ripensarsi nelle dinamiche dell’evento pasquale: autodonazione, morte e risurrezione. È in questi tre momenti dell’unico evento (pasquale) che si è “cristiani”. Una tensione che diventa manifesto di fede essenziale. La diversità è ricchezza, tranne quando nega l’essenziale o si oppone al nucleo di ciò che dovrebbe unire.

 

Tradizione di Colui che ci ha chiamato “amici”…

Ma è singolare che, secondo tradizione, ci introduciamo nella celebrazione dell’evento pasquale (Triduo) con il ricordo fondamentale della donazione di Cristo, che noi chiamiamo “eucaristia”, per poi accedere alla “sua morte e risurrezione” e prendere parte alla sua “nuova vita”. Il Triduo segue la dinamica biunivoca eucaristia-vita nuova. Potremmo tradurre così: dalla sua autodonazione ogni nostra vita.

L’iniziazione cristiana prevede il cammino inverso: dalla vita nuova (battesimo/cresima) all’eucaristia Dall’accoglienza del mistero al divenire nel mistero.

Nella prassi sacramentale il battesimo precede tutto.

Nella prassi rituale (del Triduo), l’eucaristia precede la vita nuova. Iniziamo con l’attenzione al discorso sull’agape per raggiungere il culmine nella celebrazione della vita nuova. Eppure, l’iniziazione cristiana fa il contrario.

La comunità che introduce nella vita nuova del risorto “vive” già nell’agape, nella condivisione dell’eucaristia, nella autodonazione del Cristo in cui tutti si donano e “si riconoscono”. Quell’agape ha un solo inizio: l’amore di Cristo stesso che iniziò la “tradizione” degli “amici” (cfr. Gv 15, 12-17).

È questo il motivo fondamentale, quello cronologico e simbolico allo stesso tempo: Gesù spiegò cosa stesse accadendo con un “pre-evento” (rituale) e poi si autodonò nella morte-risurrezione (fatto) in modo che tutti questi momenti definissero l’unico evento pasquale da tramandare.

 

…e tradizioni di “fratelli” non “amici”?

Ma il cristianesimo rischia di rimanere al rituale svuotando l’evento, e non a causa del rito ma a causa della mancata adesione nel rito all’evento e dell’equivoco che permane intorno al rito.

Cosa rimane della vita nuova nelle nostre società? Un rito propiziatorio? Un’iniziazione identitaria? Una consegna di appartenenza? O solo una bella superstizione?

Si sa che in questi giorni l’affluenza nelle parrocchie cresce e l’attenzione ai “riti pasquali” si fa pressante. Eppure non poche volte, alla domanda del perché i genitori battezzino i propri bambini, la risposta appare come una non vaga certezza: “sebbene atei, sappiamo che porta bene!”, o “perché così si fa”; o ancora, “perché comunque è una bella benedizione per la vita del bambino!”; e, infine, “perché così si toglie il peccato originale…”.

E cosa dire della “cresima”? Non rare volte si raccolgono confidenze delle famiglie dei cresimandi che ammettono che così “si sono tolti un altro pensiero”…

La schizofrenia religiosa è evidente, come appare evidente l’urgenza di una revisione formale e identitaria delle nostre prassi pastorali e non per cambiare le regole, ma per consolidare e strutturare le nostre identità oltre la sola percezione “moderna e premoderna” del cristianesimo. 

Le false narrazioni di identità cristiana non ci appartengono e non possono più appartenerci. Non può più appartenere ai “cristiani” una “palma che benedice” senza il peso di un “corpo crocifisso”; non può più appartenere ai “cristiani” un rito religioso senza il riconoscimento di un dono che tutti precede. Non può più appartenere ai “cristiani” una “pasqua sociale” senza il condiviso sentimento di fratellanza e l’originale amicizia; non può più appartenere ai “cristiani” un rito senza un’autodonazione per gli amici: perché tutti diventino commensali.

Se il cristianesimo, a ogni latitudine e a ogni longitudine, non ripercorre la via del Triduo, non ha ragione di chiamarsi tale. Se il battesimo (ovvero tutta l’iniziazione cristiana) non è un riconoscersi nelle parole e nelle azioni del crocifisso e risorto, senza moralismi e senza patriottismi, vuota è la fede e pericolosi sono gli auguri. Se il cristianesimo non riparte dal Triduo rischia di condividere e perpetrare la visione di un modello animista, l’appartenenza etnica a “popoli” capaci di alzare la destra, impugnando falce e fucili, contro altri popoli; né può appartenere al cristianesimo il moralismo dei sistemi soprannaturali e razionali che si dissolvono davanti alla luce del Triduo.

Non può funzionare un modello di cristianesimo sociale, o di appartenenza tribale, di superstizione pasquale, di processioni folcloristiche senza “l’amicizia” nel Cristo donante, morto e risorto, commensale per noi.

Il Triduo, come il cristianesimo, è la netta autoconsapevolezza ecclesiale di un mistero che coinvolge prima di tutto e prima di tutti, rendendo liberi di essere, per tutti, il prima e il dopo, l’origine e la fraternità, la destra del Padre che accoglie e l’amicizia donata.

Il Triduo non evoca riti velati, ma terre, strade, corpi liberati, respiri che liberano, contro ogni vendetta.

Così, gli amici, fanno Pasqua.

 

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