Ministero ordinato e forme semplici di “dignità”

 

Il dibattito sull’episcopato riporta all’attenzione i “titoli ecclesiali” tra “gerarchia piramidale” e “gerarchia comunionale”. Il Regolamento della Curia romana configura una struttura gerarchica chiara ma che può essere riformata. Le Conferenze episcopali, a loro volta, possono proporre forme più semplificate. Molto è stato fatto: ma bisogna essere chiari sui ruoli e sulle finalità. Non è una mera questione di forme e di linguaggio, ma di sostanza: il “Popolo di Dio” non è la base della gerarchia verticale ma il luogo in cui si esprime ogni “semplice dignità”.

 

 

Umberto Rosario Del Giudice

  

Spesso il termine del tempo di Natale è un momento ricco di elezioni episcopali o provviste per le Chiese particolari. La contingenza della festa del “Battesimo di Gesù” e della sua missione sembra un “tempo” propizio: tutto questo ha riacceso il dibattito intorno a ruoli e ai titoli che accompagnano le nomine. Le domande sono varie e sorgono come riflessioni stringenti[1]. A queste vorrei aggiungere le seguenti righe a partire dalla veloce lettura del Regolamento della Curia Romana e del Codice di Diritto canonico e del suo presupposto: l’impostazione costituzionale del Concilio Vaticano II. È noto che nel Regolamento è conservato ciò che potrebbe essere cambiato e che nel Codice non si trova: il titolo, ad esempio, di “Prelati Superiori”, con tutti i doveri e i diritti.

Una riforma della Curia romana potrebbe prevedere anche la riforma dei titoli connessi agli uffici.

 

Dignità ecclesiale dal basso

Il can. 208 del CIC sancisce un principio fondamentale per la Chiesa cattolica: tutti sono eguali nella dignità e nell’agire.

Tale principio, fortemente voluto dai Padri conciliari, va ben oltre il moderno concetto di eguaglianza: va oltre, nel passato e nel futuro.

A ben vedere, è un principio radicato nella fede poiché in esso risuonano le parole evangeliche: il Padre cerca adoratori “in spirito e verità” (cf Gv 4,23) appassionati della sua “giustizia” (cf Mt 5, 1-12; Lc 6, 20-26), discepoli battezzati “nel nome di Cristo” (cf At 1, 5; 2, 38; Rm 6, 3-4; Gal 3, 27…) ovvero immersi, secondo la tarda formula trinitaria, nella vita dinamica della relazione col Padre nel Figlio per mezzo dello Spirito Santo (cf Mt 28, 19).

Per tradizione, la relazione trinitaria, accolta e professata, instaurata e protratta, e che traduciamo con “figliolanza” nell’iniziazione cristiana, è l’origine di ogni “dignità” e di ogni “agire” nella Chiesa.

Questa tradizione, ripresa e rielaborata dal Concilio Vaticano II, permette oggi di vedere il cammino della Chiesa cattolica sui “passi dell’eguaglianza” senza che si possa regredire sui passi di una “societas inegualis” caratteristici di un’impostazione “etico-mistagogica antica” e “politico-strutturale moderna” dalla quale non solo la Chiesa cattolica ma anche le comunità tutte devono e vogliono emanciparsi per meglio agire nel presente e guardare all’identità futura.

In tale dinamica, il sacramento dell’ordine sacro è orientato al bene di tutti e non all’autoreferenzialità. Nella stessa prospettiva, sembra fuori luogo riprendere il concetto di gerarchia. Eppure, nella comunità di Cristo, i discepoli avranno sempre bisogno di “confermarsi a vicenda”. Nessuno si conferma da solo, tanto nella fede quanto nell’azione, nei compiti e nei ruoli.

 

Dignità ecclesiastica dall’alto

Già dal II sec. i vescovi di alcune città andavano assumendo più responsabilità e preminenza: iniziavano a farsi strada quelle “autorità” che poi sarebbero diventate “grandi patriarcati”. Allo stesso tempo, con la riforma delle province romane voluta da Diocleziano, furono riconosciute ad alcuni vescovi prerogative proprie: diritto di nomina, di controllo su altri vescovi, diritto di convocare sinodi e concili. È noto che poi la storia medievale conoscerà anche quella forma di episcopato-principesco per la quale varrà la pena “lottare” (lotta per le investiture…).

La storia è piena di “distrazioni autoritarie” dell’episcopato il quale solo grazie al Concilio Vaticano II è ciò che oggi anche la sistematica contemporanea riconosce: un grado del sacramento dell’ordine, quello che comporta la pienezza del sacerdozio ministeriale.

Bisogna però ricordare che le “distrazioni autoritarie” non sono nate solo in relazione alla competizione e al confronto con il cursus honorum dei notabili e dei militari romani. L’autorità dall’alto deriva anche da una “gerarchia celeste” di matrice ellenistica di cui lo Pseudo-Dionigi sarà uno dei più validi rappresentanti.

Così, nella storica dinamica tra “potere dall’alto”, “gioco di potere” e “riconoscimento di autorità” si fa strada l’uso dei “titoli” con tanto di motto e stemma che, in realtà, non erano riservati solo a “vescovi” ma anche ai presbiteri (monsignori, arcipreti…), tanto che il “servizio di autorità” si vestirà di particolareggiata simbologia araldica dalla quale non saranno esenti neanche abati, arciabati e abbadesse. Da questa “gerarchia di livello” tutto il mondo ecclesiastico trae(va) identità: l’ordine è uno stare su o giù. Ogni spazio gerarchico viene attratto dal buco nero della “gerarchia celeste” che riconosce nella “comune dignità” battesimale solo il gradino più basso (e necessario per la salvezza) di una piramide al cui vertice vi è lo stesso “Cristo”. Uno dei risultati, infatti, è quello di aver coinvolto anche l’ordine “glorioso ed escatologico” in questo gioco di “posizioni”, alte e basse. La gerarchia, in questo sistema, rimanda a un ordine verticale “voluto da Dio” (addirittura di “ius divinum”) ed i “titoli dignitari” stanno lì a ricordarlo.

Da questa impostazione dipendono almeno due conseguenze: l’autorità è fonte di disuguaglianza e tale disuguaglianza è “voluta da Dio”. Ma, come ricorda il canone citato, principî attualmente ignoti alla costituzione della Chiesa.

 

La gerarchia della differenziazione

Sarebbe davvero anacronistico volere giudicare la “visione ordinata” medioevale (protrattasi fino alla modernità) in cui il concetto di “gerarchia verticale” è assorbito ed è concepito. La mentalità dell’ordo come livelli sovrapposti, e a tratti contrapposti, è una caratteristica che sarà trasformata, nel solco della fedeltà alla tradizione evangelica, solo dalla dogmatica conciliare che, in ogni caso, non fa a meno di parlare di “gerarchia”. Nell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II l’ordine gerarchico, infatti, permane; ma non fa più riferimento ad una sistematizzazione per livelli, alti e bassi, ma alla differenziazione di compiti e ruoli. Credo si possa dire che si passa da una “gerarchia verticale” a una “gerarchia orizzontale”. Col Concilio, infatti, la “gerarchia” non pone differenze “sostanziali di dignità” ma è essa stessa “differenziale”; non è gerarchia “dignitaria” ma “comunionale”. Nella concezione conciliare, la Chiesa ha in sé il presupposto comune battesimale che identifica la forza e l’identità comune. Ognuno però deriva la forza secondo la propria identità personale: ne consegue che le forze sono di per sé differenti poiché nessuno è uguale all’altro, per attributi, età, competenze, tendenze, capacità riconosciute, bisogni. Ma ci sono anche “differenze ministeriali” che realizzano “identità di servizio e riconosciute” all’interno della comunità.

Da tali identità differenti deriva una distribuzione particolareggiata che formula un diverso modo di intervenire nell’azione della Chiesa anche se con uguale dignità. Il comune battesimo è la matrice che pone tutti nell’alterità trinitaria; le differenze di ciascuno sono la matrice della identità ministeriale.

In questa prospettiva, i “titoli” non hanno nessun peso se non sono correlati alla funzione e al ruolo nei confronti del “popolo di Dio”. Titoli “dignitari” non possono trovare spazio poiché la “fonte della dignità” è il “fonte battesimale”.

Dovremmo ammettere che tutti i titoli sono da rimuovere?

Non appare necessario; se essi specificano e promuovono una “gerarchia differenziale” di cui la comunità cristiana ha comunque bisogno. Come, infatti, non si può immaginare un’ordinata amministrazione senza sapere chi deve fare cosa e chi è responsabile di cosa, così non potremmo mai fare a meno di un riconoscimento di ruoli e compiti. Se è vero che la radice del termine gerarchia (dal gr. ἱεραρχία ovvero di ἱερός “sacro”, e ἀρχή, “principio, capo”) rimanda di per sé ad un sistema asimmetrico, è anche evidente, stando alla concezione conciliare, che l’uso del termine oggi rimanda ad una organizzazione che si compone di soggetti differenti per ruolo e compiti e non per supremazia e subordinazione di tipo piramidale.

Tutto questo appare essenziale se si pensa che l’attuale regolamento della Curia romana prevede che i “Prelati superiori” debbano avere un titolo che li renda “capaci di disporre” per tutta la comunità cattolica. In altre parole, la motivazione (apparentemente giuridico-teologica) per la quale, ad esempio, un Segretario della Congregazione per i Vescovi o per il Clero o della Dottrina della Fede non possa non essere “Arcivescovo” o comunque “Vescovo titolare” risiede nel fatto che l’ufficio proprio di questi “titolati” sarebbe quello di disporre e firmare atti che poi vincolano anche altri vescovi…

Qui però nasce l’imbarazzo. Se è vero che è l’ufficio che determina la potestà perché non basterebbe solo l’ordinazione episcopale per firmare disposizioni per l’orbe cattolica? Anzi: a ben vedere, non può bastare solo essere nominati all’ufficio dal Vescovo di Roma affinché si possa disporre per tutta la Chiesa cattolica anche non essendo vescovo? La giustificazione per la quale ad un dato ufficio che non prevede la guida di una porzione di “popolo di Dio” (come la guida di una Diocesi) si debba accompagnare l’ordinazione nel grado dell’episcopato non risale per caso ad una visione di “gerarchia asimmetrica” piuttosto che una “gerarchia differenziale”, per compiti, uffici e ruoli?

La questione non è di facile soluzione (potestà di governo, potestà ordinaria, potestà vicaria, potestà delegata…): ma il dibattito non può essere chiuso tra i numeri di un regolamento di Curia.

 

Conclusione

Sembra che “araldo”, da cui deriva “araldica”, indicasse per lo più un cavaliere provetto apprezzato e riverito, un funzionario che riscuoteva la fiducia del re. Se questo è vero, “titoli, stemmi e motti” nella Chiesa possono permanere solo se sono “motti, stemmi e titoli” funzionali e, soprattutto, riconosciuti dalla comunità ecclesiale tutta, senza livelli di alto e basso, senza resistere e persistere per la dignità personale. Anzi, a ben vedere, le Conferenze episcopali potrebbero anche ricondurre titoli, stemmi e motti ad una forma più semplice, più sobria (ad simpliciorem formam redigantur), come anche suggeriva già l’Istruzione Ut sive sollicite del 1969[2].

In ogni caso, il riconoscimento reciproco è un dato attestato dalla tradizione fin dall’antichità (cf Gal 1, 19) ed è stata una caratteristica che ha pervaso buona parte del vissuto cristiano e che non ha abbandonato la cristianità neanche se si pensa alla “elezione” al “soglio pontificio” o alle varie “istituzioni”[3]. Il riconoscimento reciproco è la dinamica fondante la comunità, in un senso e nell’altro, in cui si dà il ministero d’autorità[4], ed è alla base di specifici compiti e ruoli assunti per e in essa e che noi oggi chiamiamo “gerarchia di comunione”.

Tra i “Detti dei padri del deserto” si trova questa storiella esplicativa:

«Un vescovo d’una certa città cadde nella fornicazione per opera del demonio. Un giorno in cui si riuniva in chiesa e nessuno era a conoscenza del suo peccato, egli lo confessò davanti a tutto il popolo e disse: “Ho peccato”. Poi depose il suo pallio sull’altare e disse: “Non posso più essere il vostro vescovo”. Tutti piansero e gridarono: “Che questo peccato ricada su di noi, ma conserva l’episcopato”. Egli rispose: “Voi volete che conservi l’episcopato, fate dunque ciò che vi dico”. Fece chiudere le porte della chiesa, poi si distese faccia a terra davanti a una porta laterale e disse: “Colui che passerà senza calpestarmi con i piedi non parteciperà a Dio”. Fecero come lui chiedeva, e quando l’ultimo fu uscito, una voce venne dal cielo e disse: “Per la sua grande umiltà, gli ho rimesso il suo peccato”».

È un aneddoto che risente di una comprensione di “gerarchia celeste” (la “voce dal cielo”) ma che a noi insegna una verità costante della tradizione: ogni ministero è in funzione del riconoscimento altrui. Se a questo si aggiunge poi che ogni vescovo diocesano non è un semplice rappresentante del papa ma è egli stesso la diretta rappresentazione del “Cristo capo” per la propria comunità, ne consegue che anche tra i Vescovi e il Vescovo di Roma, benché ci sia gerarchia, essa non può che essere “gerarchia comunionale” in base alla dinamica propria del Collegium Apostolicum. E in questo orizzonte vanno comprese ministeri, nomine, e titoli mentre non trova spazio la “titolazione” che rimandi ad una “dignità” personale.

I “titoli ecclesiali” servono nella misura in cui rivelano una funzione reale a favore di una “porzione di popolo”; i “titoli araldici e dignitari” appaiono ombra di una realtà che non ci appartiene più, per costituzione ecclesiale.

 



[1] A dare il via al dibattito è stato Andrea Grillo con un post del 10 gennaio nel quale, con la dovuta parresìa, invita a riflettere sul sacramento anziché sui titoli. Lo stesso autore ha approfondito il tema col post del 12 gennaio in cui richiama due concezioni dell’episcopato accompagnato nella lettura dalle riflessioni di Ghislain Lafont. Continua la riflessione, sullo stesso blog, le parole di Cosimo Scordato che aiuta a riflettere su episcopato e chiesa locale.

[2] Cf. Segreteria di Stato, Istruzione: Ut sive sollicite circa le vesti, i titoli e le insegne di Cardinali, Vescovi e Prelati minori, 31 marzo 1969 [omissis].

[3] Cf. J. Orlandis, Le Istituzioni della Chiesa cattolica. storia, diritto, attualità, Cinisello Balsamo 2005.

[4] Sul tema si veda ad esempio: S. Dianich – S. Noceti, Trattato sulla Chiesa, ed. 2, Brescia 2005.

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