23 maggio: tra stragi e Pentecoste

 

A margine di questo 23 maggio, quasi in fine mese, tra notizie tristi e invocazioni pentecostali: che la tristezza sia un’energia da non perdere in cui riconosciamo, invochiamo e attendiamo, nonostante tutto, l’azione del “Dio-in-quanto-dono” che è ora dono di vita nuova e possibile. Allora, “maggio se ne va, avanza ‘o pede”.




Umberto R. Del Giudice


In questo 23 maggio si condensano molti avvenimenti, alcuni dei quali hanno del “miracoloso” altri sono tragici.

Continua la guerra tra palestinesi e israeliani, i chierici della provincia dello Xinxiang sono messi tutti agli arresti dalle autorità cinesi, un’intera popolazione fugge per l’eruzione di un vulcano per l’imminente possibile esplosione, in Myanmar la tensione è sempre più alta, mentre in Italia facciamo memoria della strage di Capaci a causa della quale persero la vita alcuni uomini della scorta e la moglie dello stesso magistrato scortato, Giovanni Falcone. Il 19 luglio poi verranno uccisi anche Paolo Borsellino e alcuni agenti di scorta.

Questo 23 maggio racchiude una storia triste. In questo giorno i simboli della lotta alla mafia furono massacrati, la libertà è calpestata, i diritti dei poveri (di qualunque nazionalità) vengono considerati come “effetti collaterali di una guerra giusta”, a causa di eventi naturali si presentano nuovi profughi mentre, a causa di fame e interessi spregevoli di pochi, continuano gli sbarchi di molti sulle nostre spiagge.

E in tutto questo è Pentecoste, solennità che racchiude una nuova rivelazione all’uomo: quella dello Spirito che viene ad abitare non in mezzo a noi ma dentro di noi, che abita non solo il cosmo ma i credenti, formandoli in fraternità universale e comunità di credenti.

Ma dov’è lo Spirito?

 

Lo Spirito e la tristezza dentro e fuori la Chiesa

A circa dieni anni dalla fine del Concilio Vaticano II, il card. Léon Joseph Suenens, arcivescovo di Malines-Bruxelles e primate belga, scrisse un prezioso volume: Lo Spirito Santo nostra speranza. Bisogna dire che questo Cardinale fu l’unico che raccolse un applauso dopo il discorso all’assise conciliare: gli applausi al Concilio erano vietati dal regolamento conciliare per non condizionare né indisporre i padri. Eppure, il suo discorso ricco di speranza e di riflessioni sul rapporto tra Chiesa, mondo contemporaneo e Spirito Santo, non frenò gli entusiasmi.

Ebbene, nell’ultimo capitolo del libro, dopo aver lungamente parlato dello Spirito come speranza e della sua azione nella Chiesa, Suenens scrive un paragrafetto significativo dal titolo “La notte oscura della speranza”. Annota come all’indomani della chiusura del Concilio un velo di tristezza lo avvolse perché le attese trovarono varie resistenze fuori e dentro la Chiesa.

Egli scrive:

«Non ricostruirò qui la storia dell’azione dello Spirito Santo in me nel corso degli anni: d’altronde, questo racconto dovrebbe andare di pari passo con la confessione dei miei rifiuti e delle mie reticenze a corrispondere alla sua grazia. Ma vorrei dire in breve ciò che fu per me, non la notte oscura della fede, ma la notte oscura della speranza che ho vissuto dopo il Concilio. Credo che quest’esperienza sia, con delle varianti, la stessa per quasi tutti i vescovi che rientrarono a casa loro dopo il Vaticano II nella gioia del rinnovamento conciliare che si andava profilando. Già nel corso del Concilio, per me, questa gioia molto forte si oscurò a causa di certe tensioni o mezze misure che non permisero di realizzare tutte le speranze. Tuttavia il bilancio globale era largamente positivo e invitava al l’euforia. Venne il dopo-Concilio e con sorpresa di tutti un vento di desolazione e di devastazione scosse la Chiesa di Dio».

 

Tristezza e speranza

Com’è possibile che lo Spirito possa coabitare con le tristezze del mondo e con la desolazione della Chiesa?

Dobbiamo sicuramente ricordare che la tristezza è uno di quegli “affetti” propri dellumano, ovvero unemozione e unenergia psichica, che fa parte del vissuto umano. È uno stato di “depressione” rispetto alle nostre aspettative deluse o ai nostri desideri mancati o alla realtà drammatica che impone serie sofferenze, personale o sociale.

Come può tutto questo risolversi nella festa della Pentecoste?

La Pentecoste è il dono dello Spirito ma va ricordato che lo Spirito non è semplicemente un “dono”, ma è “Dio-in-quanto-dono”. In questo è allora riposta l’onnipotenza dello Spirito: nel continuare ad abitare il cuore dei credenti, dell’uomo e del cosmo nonostante le sofferenze drammaticamente inutili e i drammi inutilmente dolorosi che uomini e natura ci e si impongono.

Poi ci sono quelle “non speranze” che vengono imposte anche dal comportamento e dagli atteggiamenti della Chiesa stessa; come nel caso del card. Suenens: vorresti una comunità credente più tesa al bene e ottimista che rimane invece a contemplare il racconto delle “lingue di fuoco” senza però più riuscire a parlare alcuna lingua in una nuova Babele.

Le tristezze della Chiesa di oggi si moltiplicano nella fitta relazione con le tristezze del mondo: le une non lasciano indifferenti le altre poiché la Chiesa non è mai fuori dal mondo e viceversa.

 

Lo Spirito della speranza

Chi conosce un po’ di storia della spiritualità sa cosa sia la “notte oscura della fede”. Ebbene, i credenti, le comunità, la Chiesa vivono e possono vivere anche la notte oscura della speranza e possono celebrare la Pentecoste a patto che la certezza della presenza dello Spirito (a cui tutti devono “abituarsi”) sia uno strumento utile per prendere nuove decisioni e non per lasciarsi andare a nostalgie sterili o a desideri spiritualistici o addirittura a desideri egoistici, dietro i quali la tristezza è sintomo di infantilismo, personale e sociale.

La Pentecoste è un arcobaleno di relazioni e decisioni e non di lingue e di fiamme: che le tristezze siano strumenti utili per valutare le situazioni e per costruire nuove relazioni, capaci di allontanarci dalle regressioni e di avvicinarci alla costruzione del bene per noi e per tutti.

Che l’energia della tristezza si tramuti in energia per la decisione; e tutto questo non senza il respiro della preghiera, il suono del silenzio, l’emozione della danza e della decisione, la responsabilità dellagire condiviso e dellabbandono, la serenità dellautonomia personale e altrui.

 

A fine maggio

Il 23 maggio del 1992 ero a Fréjus. Ero bloccato davanti alla TV: non riuscivo a staccarmi dalle immagini della strage di Capaci. Ero profondamente triste, ma intorno a me, gli amici francesi non coglievano le ragioni della mia tristezza: per loro era solo un fatto di mafia.

Oggi, per molti, i tanti accadimenti di cui sono piene le cronache sono solo un fatto “politico”, o “lontano”, o “cronache di Lampedusa”, “cronache di guerra”, e, in alcuni casi, “fatti interni alla Chiesa”…

E, intanto, molti credenti si rifugiano nel racconto che Luca fa della Pentecoste nel libro degli Atti: venti di fuoco, discepoli che parlano in lingue… Un rifugio mitologico che ha il potere di astrarre dalla realtà ma anche di donare una decisionalità nuova e un atteggiamento forte per chi non regredisce nella nostalgia del passato o nel desiderio violento del futuro.

Non importa, infatti, ciò che è accaduto in quel cenacolo o quale percezione ne abbiano avuto quelle donne e quegli uomini lì presenti. La loro esperienza fu di assoluta presenza di Dio, nonostante tutto: e questo diede loro la possibilità di costruire nuovi significati, nuove relazioni per il bene di tutti, nonostante la tristezza del Cristo morto e asceso.

Le tristezze possono essere strumenti del “Dio-in-quanto-dono”, dello Spirito. Le tristezze ci aiutano a scrutare l’orizzonte, a prendere decisioni, e piano piano, a rialzarci, a ballare, a gioire, poiché «La vergine allora gioirà danzando e insieme i giovani e i vecchi. “Cambierò il loro lutto in gioia, li consolerò e li renderò felici, senza afflizioni”» (Ger 31,31).

Il “lutto” aprirà alla speranza che niente potrà mai essere perduto nel Dio-che-tutto-raccoglie-e-tutto-dona”. Bisogna alzare il piede e camminare a testa alta anche alla fine di questo mese, anche se i tempi per i bei cambiamenti, dentro e fuori la Chiesa, ci sembrano rallentati…

E alla fine di questo maggio, mi piace riportare alla mente il testo di una canzone di Pino Daniele: “Maggio se ne va”, che ricorda quanto l’uomo, nudo, cerca Dio, cerca il bene e in questa ricerca incontra il freddo di chi non è mai contento, eppure bisogna andare avanti con allegria. Un testo forte in una melodia triste e mesta, come può essere la realtà.

Una realtà però questo testo non dice né può dire: la presenza di “Dio-in-quanto-dono” nelle nostre vite è una certezza per quelli che cercano il bene di tutti e sono disposti ad essere dono per tutti, ognuno a suo modo, piano piano, lente ma inesorabbili e incisive, come le vite di Suenens, di Falcone, di Borsellino, dei bimbi ignoti e sfigurati dalla guerra. 

Quel Dio-speranza non lascia il presente a sé stesso. 

Di questa esperienza oggi siamo custodi e testimoni, nelle tristezze e nelle speranze.

 

 

Nuje ca cercammo Dio

Stammo pe' sempe annure

Nuje ca cercammo 'o bbene

Nun simmo mai sicuri

E nun ci'abbasta niente

E cchiù n'amma sapè

Nun simmo maje cuntenti

E intanto maggio se ne va

Ce resta 'o friddo

Ma quaccosa è allero

Maggio se ne va

Avanza 'o pede


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