Dio, il suo sguardo e la sua benedizione
Il bell'intervento su Jesus di Andrea Grillo è occasione preziosa per alcune puntualizzazioni sul Responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede ad un dubium circa la benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso
Prima di lasciare spazio al Triduo pasquale che inizierà oggi pomeriggio all’ora dei Vespri, mi sembra opportuno raccogliere la provocazione e l’intuizione lanciata da un post di Andrea Grillo. Si sa: ormai i social sono luogo di scambio immediato.
Il post di Andrea è il seguente:
«Poiché il Codice
(CJC) ha autorità dal battesimo in poi,
la benedizione sta in parte al di qua del Codice».
Confermo il mio commento a caldo: questa è una
“interessante prospettiva”.
Altri commenti lasciavano trasparire qualche incomprensione rispetto alla mia reazione andando a precisare che il post di Andrea Grillo rappresentava
la “realtà” piuttosto che essere un’intuizione.
Evidentemente il mio commento andava chiarito.
Lo faccio volentieri riprendendo la posizione di Andrea
Grillo che compare ancora più viva e chiara in un articolo apparso su Jesus
nel quale si ribadisce che una benedizione può essere tale anche rispetto a ciò che è “alla
periferia”, di ciò che è bene pur se “non-Chiesa”.
Il rimando è poi alla questione già nota del Responsum
circa la benedizione delle unioni delle persone dello stesso sesso.
Alla bella riflessione di Andrea Grillo mi permetto di
aggiungere qualche nota in continuità, per (ri-)aprire la questione e mai per
chiuderla.
Dichiaro subito, per evitare equivoci, che credo che non
solo sia possibile sostenere la benedizione delle unioni di persone dello
stesso sesso ma sarebbe anche raccomandata una tale prassi per essere e rimanere
Chiesa. Tutto ciò va distinto dal comparare nell’immediato sacramento del
matrimonio e benedizione delle coppie omosessuali pur se una certa continuità esperienziale va
riconosciuta.
Ripercorro brevemente il dettame del Codice e le possibilità
canonistiche.
L’approccio al Diritto e al Codice
Credo sia essenziale, anche se non del tutto scontato, dividere le due realtà: il Diritto canonico e il Codice di diritto
canonico. Il Diritto canonico non è tutto il Codice per almeno due
evidenze: a) il Diritto canonico è anche dottrina canonistica (e questa sostiene l’interpretazione della disciplina anche quando il Codice dice altro o non
dice niente); b) ci sono due Codici che raccolgono i canoni per due tradizioni e
che si rifanno all’unico cattolicesimo.
Ricordo tra l’altro che i due Codici sono in continuità
circa la dottrina dei sacramentali e del matrimonio (senza entrare nello
specifico per brevità): realtà a cui farò riferimento in seguito pur seguendo
solo il CIC del 1983 (quello che per tutti i latini è il Codice…).
Con questo vorrei subito dire che sulla benedizione delle coppie
dello stesso sesso non c’è bisogno di riformare i Codici ma va riformata
l’interpretazione canonistica che rimanda, purtroppo oggi più di prima, ad una
posizione teologica descritta e riportata nel Responsum. Una
dichiarazione che, va ricordato, non riveste alcun carattere di definitività
né richiama il dettame del can. 750 §2 poiché manca la dichiarazione del suo carattere “definitivo”, riguardando poi la sola “liceità”.
Ma sul Responsum (che sembra non avere versione in latino…)
già molto è stato scritto anche se più dal punto di vista delle posizioni teologiche
che sotto l’aspetto strettamente canonistico.
Come riflettere col Diritto canonico (con e oltre il Codice)
Riporto in breve una constatazione riprendendo il Codice ’83
(CIC) tra sacramentali e matrimonio.
Il Codice è pensato per i battezzati, ma non solo… In
realtà, il Codice pensa anche alle “periferie” ed estende la propria competenza
spesso ben oltre la sola “capacità giuridica personale” (acquisita col battesimo,
ex can. 96). Che il Codice vada oltre i soli battezzati ne è riprova il fatto
che tocca anche i “catecumeni”, uniti alla Chiesa da speciale
vincolo (come ricorda il can. 206 §1).
Per la nostra questione c’è altro. Ben più esplicito infatti
è il can. 1170 che riporto integralmente:
«Le benedizioni, che vanno impartite in primo luogo ai
cattolici, possono essere date anche ai catecumeni, anzi, se non vi si
oppone una proibizione della Chiesa, persino ai non cattolici».
Con Andrea Grillo si potrebbe dire che qui la “periferia” è
più che compresa, sebbene riconosciuta come tale.
Il Diritto, anche nella sua codificazione, è così: “onnicomprensivo”.
Ma la tendenza ad essere onnicomprensivo (poiché astratto e relativo ad una “visione”
dottrinale) non ne oscura la capacità (tutta canonica) di essere flessibile,
elastico, equo, rimanendo fedele alle vite.
Vorrei dimostrarlo con due rimandi.
Durante la discussione degli schemi del Codice attuale, un
Cardinale (a proposito del can. 1124 dello schema iniziale che diventò il can.
1170 attuale) chiese se il termine “non cattolico” indicasse anche la possibilità di impartire
la benedizione ai “fratelli separati”.
La risposta della Commissione fu chiara e netta: sì, senza
alcun dubbio. Se la benedizione può essere impartita alle cose, agli animali,
ancor più può essere impartita alle “persone umane”, anche se non cattoliche e
non cristiane[1].
Non si tratta dunque di battezzati, né di rimanere fedeli alla idea (teologica) di persona. Ma si tratta di riconoscere e rivalutare la persona umana.
Il Diritto è dunque elastico e flessibile, comprensivo ma
non statico.
Altra evidenza: il Responsum è preoccupato di evitare
la comparazione univoca e stretta tra benedizione delle unioni di persone
dello stesso sesso e matrimonio.
In realtà, già solo su questo punto la dottrina potrebbe
venire in aiuto nell’interpretazione, senza bisogno di formulare altri canoni.
Il Codice, infatti, al can. 1055 §1 ricorda che il
matrimonio, patto tra uomo e donna, è “per sua natura
ordinata al bene dei coniugi” e poi, in seconda battuta, anche alla procreazione.
Questo, com’è noto, è il cambio di paradigma: dal fine matrimoniale prettamente
procreativo si è passati ad una visione personalistica per la quale conta “il
bene della coppia”, ovvero la loro esperienza personale, ben oltre e prima la sola
procreazione. Lo dimostra anche il fatto che il matrimonio delle coppie sterili
è pienamente valido (tranne in caso di dolo).
Ora, nonostante il richiamo a due persone di sesso differente e alla procreazione della prole, rimangono vivi due elementi: il bene della coppia e l’educazione della prole. In altre parole, senza alterare nulla nel Codice, la dottrina della Congregazione un giorno (come auspicabile) potrebbe comprendere e riconoscere l’esperienza affettiva e unitiva di persone dello stesso sesso sebbene “di periferia” ma pur sempre connessa con l’esperienza di fede personale nel quadro di una unione non sacramentale, sebbene fondativa rispetto ad un modo di vivere nella fede e nel battesimo la propria appartenenza alla comunità cristiana; un’esperienza come possibile realtà di periferia “riconosciuta e integrata”.
Sarebbe possibile riconoscere un bene o un’esperienza di
bene della coppia, non matrimoniale ma pur sempre un’esperienza di vita nella fede,
su cui invocare la custodia di Dio, riconoscendone lo sguardo. C’è anche solo una persona che
cerca il bene alla luce e senza ambiguità che Dio non veda e non custodisca? Se
è lecita e canonica la valutazione delle esperienze dei non cattolici, quanto
più dovrebbe essere canonico e lecito il riconoscimento limite dell’esperienze
di cattolici che vivono nella fede la propria vita.
In realtà, in gioco non c’è il matrimonio ma l’idea di
persona, poiché solo ad un’idea si riduce la persona quando non si
parte dalle sue esperienze valorizzandole alla luce della fede. Le esperienze
vanno sostenute, accompagnate, integrate e incluse, pur non nella loro radicalità
sacramentale.
Se è vero che le persone dello stesso sesso unite tra loro non
possono attribuire a sé ciò che la natura non può concedere loro, è anche vero
che il bene che l’unione può recare loro, nella propria esperienza di
battezzati, non può non essere “vista” da Dio, e quindi dalla Chiesa.
Il Diritto canonico e il Codice hanno la possibilità di
riconoscere il bene delle esperienze, in periferia della Chiesa ma anche alla periferia del sacramento. E le unioni di persone battezzate dello stesso sesso sono alla periferia del sacramento ma mai escluse dalla Chiesa.
Conclusione
La distinzione che va fatta è tra benedizione costitutiva
o equiparativa al matrimonio e benedizione di riconoscimento di un
bene, relativo, periferico, ma pur sempre un bene donato, possibile e
migliore rispetto alla solitudine e alla ambiguità relazionale.
Se è vero che la benedizione delle coppie dello stesso sesso
non è immediatamente equiparabile al sacramento del matrimonio (così come oggi
ricorda la dottrina) è pur vero che la possibilità di impartire benedizioni
come ad un’esperienza limite, di periferia, è già presente nel
Codice, per i battezzati e anche per non battezzati.
D’altra parte, e qui ci viene in aiuto il Diritto canonico e
non il Codice attuale, l’assenza di ulteriori specificazioni dei sacramentali non
impedisce di ritornare alla distinzione tradizionale tra benedizione costitutiva
e benedizione invocativa presente nel precedente Codice ’17 (can.
1148 §2)[2].
La benedizione costitutiva, allo stesso modo della
consacrazione, “rende sacro”, costituisce sacro ed è immediatamente affine ai
sacramenti.
La seconda, quella invocativa, supplica
il favore e la protezione di Dio sulle persone e sulle cose. E se è
vero che questo può essere fatto anche su persone non cattoliche, come fa la
Chiesa a dichiarare di non avere il potere di chiedere la protezione su
battezzati dello stesso sesso che decidono di vivere un’esperienza unitiva
sebbene alla periferia e distinta da quella sacramentale del matrimonio?
La confusione che la stessa dichiarazione della Congregazione
per la Dottrina della Fede ha introdotto senza entrare nel merito delle esperienze
e senza fare ulteriori distinzioni e ulteriori riconoscimenti, lascia veramente
perplessi, anche dal punto di vista del Diritto canonico.
[1] «Ad can. 1124 - Petitur si
terminus “non catholicis” indicat benedictiones dari posse fratribus separatis
Ecclesiae vel communitatis christianae, immo, et non christianis (Card. Florit).
R. Procul dubio; si dantur etiam rebus et animalibus, a fortiori dari possunt
personis humanis, etsi non catholicis aut non christianis» [omissis].
[2] Così il testo del Codex ’17:
“Consecrationes ac benedictiones sive constitutivae sive invocativae invalidae
sunt, si adhibita non fuerit formula ab Ecclesia praescripta”. Da qui si ricava
la distinzione tradizionale ed esistente allora tra benedizione costitutiva e
invocativa.
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