COMUNITÀ DEI SANTI, CAMBIAMENTO DEL SINGOLO E OPPORTUNITÀ ECCLESIALE

 


 

 

Il ministero sacerdotale è un servizio prezioso per la Chiesa e va custodito anche il dono del celibato. Ma se alcuni ministri chiedono la dispensa dagli oneri sacerdotali non basta la semplice “accoglienza” della decisione altrui come “riappacificazione” col singolo: l’accettazione, passiva o reazionaria, si tramuta spesso in “rassegnazione di tutti” e “isolamento di alcuni”.

Nella “comunione dei santi” la comunità deve imparare a trovare il bene in tutto, per il bene di tutti ed essere così tutti migliori e la perplessità di una promessa non mantenuta deve lasciare lo spazio alla luce di una persona non smarrita, anzi, forse, ritrovata, in sé e nella comunità.

 

Umberto R. Del Giudice

 

Il sacerdozio ministeriale è un dono prezioso per la Chiesa. Esso va compreso e va tutelato ma va anche ricompreso nelle dinamiche storiche e in quelle personali. Il prezioso dono sacramentale non può nascondere la necessità di valorizzare sempre più l’esperienza di fede personale che a volte segna il passo, a volte fa un passo indietro, altre volte qualche passo laterale, ma pur sempre un passo possibile verso la pienezza di sé nella sequela di Gesù Cristo. Nessuno è mai escluso, anche se cambia. Sotto questo aspetto non è il diritto canonico che deve mutare ma è la mente della comunità ecclesiale che deve convertirsi a sensibilità diverse, secondo l’esigenza di una caratteristica che le è propria, quella della “comunione dei santi”.

In questi giorni fa molto notizia la decisione di un presbitero che ha lasciato il ministero dichiarando di aver ritrovato un “senso di onestà”. In realtà se si ascolta l’intervista in cui traspare il vissuto non facile di questi giorni del giovane prete, i titoli che fanno leva sul “sentirsi più onesto” appaiono una strumentalizzazione: dall’intervista traspare tutta la complessità delle dinamiche vissute dal giovane don Riccardo che, su altre pagine, ricorda le ultime vicende, persino negli orari (e come non chiedergli).

Ed è esplosa la consueta agitazione partigiana, tra i sostenitori del liberalismo ecclesiale (che subito rinviano alla necessità di abolire la legge del celibato) e i difensori del celibato (poche volte con motivazioni solide)[1]. Entrambi gli schieramenti hanno parole pro o contro, a volte dure, altre volte rispettose, poche volte equilibrate.

Anche la pagina web della Diocesi di Orvieto-Todi, dopo aver pubblicato la notizia relativa alla richiesta di dispensa dagli oneri sacerdotali, ha pubblicato una precisazione del Vescovo che, pur nella comprensione del passo del presbitero, richiama alla necessità di non parlare di “eroismo”. Un comunicato che risente di una “formale oggettività” di chi “non molla” e dimentica di narrare che la “trincea” può risiedere anche nel “cambiamento drastico”. Ma è bello constatare che la volontà del Vescovo è quella di fare tutto alla luce del giorno che deve diventare la luce della comunità. 

Ma la vera questione non è la legge del celibato in sé, né la sua bontà o la necessità di abolirla, di difenderla o di attaccarla. Non è opportuno e non basta nemmeno il richiamo ad una forma “oggettiva fedeltà”.

Che il celibato sia una legge ecclesiastica non sostanziale al ministero sacerdotale, è fatto noto ed evidente. Che sia una consuetudine preziosa per la Chiesa e per la Chiesa di tradizione latina e che vada tutelata, mi trova pienamente d’accordo. Che le promesse vadano mantenute e serbate, anche questo è tacito. Ma dietro ai cambiamenti ci può essere molto di più: una possibilità di carità reciproca, sempre e comunque, e un bene migliore.

 

Ciò di cui si deve discutere è il cambiamento di mentalità della Chiesa e il necessario accompagnamento dei ministri che abbracciano o lasciano il celibato, per l’oggi e per il futuro: nessuno, infatti, ha il pieno controllo sul tempo e sulle circostanze, ma può averlo sulle (proprie) intenzioni nell’oggi, e, se cambia, nessuno va lasciato solo, mai. Questo fa parte ed è un’opportunità della “comunione dei santi” nella quale va ricompreso il ministero, ed anche il celibato.

Per questo si impongono alla comune riflessione almeno tre aspetti essenziali relativi alla questione sulla “legge del celibato” per i ministri ordinati: un quasi cambiamento, un possibile cambiamento, il necessario accompagnamento.

Il quasi cambiamento è quello che si nota rispetto alle richieste di dispensa dal celibato.

Il possibile cambiamento è quello che può coinvolgere il vissuto di un prete: dinamica che va riletta come possibilità di comunione (tra i santi e non come fallimento individuale).

Il necessario accompagnamento è quello che deve vedere la comunità ecclesiale tutta (parrocchia, presbiterio, Curia, Vescovo) impegnata nell’aiutare il battezzato a riformulare le relazioni che, giocoforza, cambieranno con le sue decisioni, con o senza celibato: e questa è una caratteristica propria di una comunità di fede e di carità, secondo la qualità tutta ecclesiale dellessere comunione dei santi.

 

Un (quasi) cambiamento ecclesiale

Davanti alla richiesta di dispensa dagli oneri sacerdotali si alternano ancora due reazioni contrastanti: da una parte chi richiama alla “necessità di rivedere la norma sul celibato”, dall’altra chi evoca violentemente “il giuramento fatto davanti a Dio”.

Bisogna subito notare che un certo cambiamento si è già verificato sebbene non decisivo. Qualche anno fa (e a volte ancora oggi) la decisione di “lasciare il sacerdozio” sarebbe stata accolta con diffidenza da quasi ogni Vescovo (che al contrario, nel caso specifico, ha accompagnato il Don) e con “scandalo” da parte di moltissimi fedeli. Sebbene alcuni atteggiamenti siano cambiati, bisogna però ricordare che, dal punto di vista canonico, il buon don Riccardo dovrà produrre un certificato che (firmato dal parroco ove andrà a risiedere) attesti che non c’è alcuno “scandalo suscitato nei fedeli”. La formalità canonica riporta la mente a contesti storici e locali (se non curiali) in cui una notizia del genere era davvero vissuta solo come “scandalo” taciuto il più possibile e trattato come una “brutta malattia”: senza chiamarla per nome e senza accompagnamento solidale, ma solo con grande lutto.

Quando nel 2011 partecipai ad un seminario di studio sulla “prassi amministrativa” presso la Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti fui molto addolorato e sorpreso del fatto che l’Officiale si vantava di avere nei propri cassetti richieste di “riduzione al laicato” (altra espressione infelice e ridicola oltre che inesatta) in giacenza da oltre venticinque anni. È inutile dire che dopo oltre vent’anni dalla richiesta, gli interessati, una volta contattati, spesso non avevano più voglia di sanare la loro posizione, preferendo, dal punto di vista canonico, “una situazione irregolare” anche come forma di reazione. Le competenze per la “dispensa dal celibato sacerdotale a istanza di parte”, com’è noto, sono poi passate alla Congregazione per il Clero: più celerità; e non c’è di che meravigliarsi…

Va segnalato, dunque, che la sensibilità è cambiata anche nei processi amministravi: e questo non può fare che piacere. Nonostante però le belle testimonianze di accompagnamento di alcuni Vescovi, non si può tacere il fatto che in molti casi, soprattutto al sud Italia, l’approccio rimane quello riservato agli scandali da tacere o alle inquisizioni da condurre, come se ci si trovasse davanti a una formale apostasia.

Da notare che “lasciare il sacerdozio” (ministeriale) è un’espressione ridicola poiché molti non lascerebbero il sacerdozio se fossero concesse loro le nozze. Solo in una circostanza ho avuto modo di appurare che il ministro che chiedeva la dispensa era mosso dalla autoconsapevolezza di essere stato indotto alla carriera ecclesiastica dalle circostanze e influenze familiari: solo una volta su moltissimi casi (noti e non noti e che riservo in pectore).

La questione, tuttavia, è la necessità di cambiare atteggiamento davanti a coloro che prendono una decisione diversa da quella già presa: una questione che, a ben vedere, non può invocare il confronto con la vita matrimoniale. Va cambiato atteggiamento perché va cambiata la percezione del dono del celibato e del ministero.

Prima di evocare il cambio normativo sulla legge del celibato è urgente ed essenziale mettere sul tavolo un’altra questione: il cambio di atteggiamento ecclesiale nei confronti di chi opera scelte nuove, diverse e in contraddizione con le scelte precedentemente prese, pur se, forse, non incoerenti con la trasparenza del proprio cammino personale.

E qui si apre un altro “capitolo”: il possibile cambiamento del ministro ordinato e le sue scelte.

 

Il possibile cambiamento del ministro

Il sacerdozio ministeriale è un dono preziosissimo. Esso è donato, come tutti i doni sacramentali, al cammino delle persone nella comunità credente. Le persone sono “storiche”, vivono, cioè dinamiche che possono portarli a cambiare mente e per questo anche approccio spirituale alla realtà. Se ragioniamo solo dal punto di vista “oggettivo”, che la promessa professata davanti a Dio e alla Chiesa non è discutibile, dimentichiamo il valore “soggettivo” di quella promessa: è in gioco non solo un giuramento, ma una persona. E la persona e le sue dinamiche valgono più di una promessa fatta su sé stessi: “promessa” che va distinta dalla “manifestazione di volontà matrimoniale”.

La promessa è un valore aggiunto alla persona che in essa si percepisce e si sperimenta in modo più completo rispetto al proprio vissuto: questo il diritto canonico lo sa e lo tutela. Ma lo stesso diritto sa anche che la promessa può essere rotta, rivista, riformulata nella storia e nelle esperienze vitali del singolo e, per questo, predispone la “dispensa”.

Il diritto canonico tutela le libertà dei singoli per salvaguardarne la libertà possibile, nonostante tutto.

È drammatico, pur se nella riluttanza o sorpresa dei singoli, accorgersi che si possa arrivare a negare il diritto di vedersi tutelati nei cambiamenti, anche se per nulla in contrasto con la fede in Gesù Cristo. Certo, il cambiamento del singolo ministro che chiede la dispensa rimane un fatto che pone la comunità tutta a costituire nuove relazioni, in sé e con quel “ministro”. Questo però non toglie che l’odore dello “scandalo” debba lasciare il posto al profumo della comune sequela: tutti dietro e accanto Cristo, comunque e sempre. Questa è la caratteristica dei “santi che sono in comunione”.

Una comunità di battezzati e di rinati in Cristo è e deve essere capace di abbandonare il criterio del “dover essere” per far posto al “possibile”; bisogna passare dal “dovere oggettivo” al “possibile soggettivo” nella capacità di includere le esperienze altrui.

Sono questi atteggiamenti che contraddistinguono una comunità soprattutto davanti a vissuti che non sono contrari alla fede sebbene diversi rispetto alle promesse fatte.

Il dolore di una promessa non mantenuta dovrebbe lasciare lo spazio creativo della forza di una persona non smarrita, anzi, forse, ritrovata.

Non basta la semplice accoglienza, giuridica e/o formale, della decisione altrui spesso declinata come “riappacificazione” (?) del singolo con la comunità: una “riappacificazione” (canonica) che spesso diventa “rassegnazione” di tutti, del ministro dispensato e della comunità sorpresa e addolorata…

La vera sfida del cambiamento sta nello scoprirsi “possibili illimitati”, alla sequela del Maestro: trovare il bene in tutto ed essere tutti “più buoni”, anzi, “decisamente migliori”. E questo è il vero bene “possibile e migliore” per la comunità ecclesiale, soprattutto in una questione che poi non tocca la fede. Se la comunità ecclesiale riuscirà ad accompagnare un “suo” ministro alla conquista della propria serenità, sarà “luce del mondo e sale della terra”. Se poi si arrocca nell’accettazione o, peggio, nella delusione, perde il sapore e spegne la lucentezza.

 

E nessuno va lasciato solo: oltre l’individualismo, personale ed ecclesiale

I concetti di “coerenza”, “per sempre”, “onestà”, “eroismo”, sono immagini forti ma relative ad un sistema di valori troppo “oggettivo/individualistico” e poco “relazionale/intersoggettivo” del vivere ecclesiale. Sono concetti e valori diversi e distanti dal concetto fondante di “comunione dei santi”: e questa comunione nessuno la dovrebbe mettere in dubbio, pur se nella sorpresa di scelte diverse o con promesse che si diversificano nella storia personale della sequela. Rispolverare il linguaggio violento dell’oggettività mortifica o annulla le potenzialità della comunità ecclesiale.

La “comunione dei santi” spinge più a valorizzare la vita di carità in ogni sua espressione che il valore, reale o presunto, di un “bene promesso”: in quest’ultimo caso, infatti, l’accento “oggettivamente” cade più sul “bene” che sulla “promessa”, che rimane dinamica se vuole rimanere fedele in sé.

La carità vissuta è sempre un amore dinamico, intimo e completo in sé. Qualcuno ha scritto: «un amore vero è sempre un amore di castità, non esiste un altro amore»[2]. Le dinamiche dell’amore (che non sono solo quelle affettive dell’innamoramento) risiedono principalmente nella capacità di relazionarsi e nella volontà di creare relazioni caritatevoli, aperte, non-violente, di totale dono di sé. Tutto ciò non squalifica il celibato in sé, anzi; ma apre al tempo stesso alla possibilità di altri modi di donazione all’interno della comunità.

Se è vero che “nessun uomo è un’isola” è anche vero che, nell’ambito del ministero sacerdotale, le dinamiche della “donazione di sé per il ministero di comunione” non possono essere vissute fuori dalla comunità che se ne fa garante e custode.

Al tempo stesso nessuna comunità può volere un ministro “solo” e “isolato” per l’amministrazione dei sacramenti o per la freudiana necessità di (ri-)vedere in lui il “sacro” a cui tanto anela, magari ipostatizzando la “persona Christi” a cui pur partecipa ogni battezzato.

Un ministro senza assemblea e, parimenti, una comunità che vuole un ministro “sacro” (staccato da tutto e tutti), creano un forte individualismo ecclesiale.

Da una parte avremo il prete che da solo deve e vuole servire “Cristo e la Chiesa”; dall’altra avremo una comunità che lascia il “prete solo”, nella sua “sacramentale istituzione” e che spesso abbandona all’isolamento anche, per reazione, nella sua nuova posizione di “ex” (salvaguardando “la carità e l’accompagnamento economico”).

Davanti a queste possibilità congiunte dobbiamo chiaramente dire che, pur nella necessaria solitudine, nessun celibe e nessuna nubile possono vivere isolati. Il celibato richiede un cuore indiviso (che si manifesta anche nella capacità di vivere “solo”) ma le relazioni ecclesiali (perché di relazioni ecclesiali si tratta e non di personali ispirazioni, altrimenti basterebbero astinenza sessuale e sessuofobia) non possono mai invocare l’isolamento istituzionale e/o affettivo. In altre parole, se il celibe e la nubile sono chiamati a vivere in astinenza ma armonizzati in sé, non significa che debbano vivere “isolati da”, anzi. Una certa “comunione dei santi” la vive anche l’eremita: ma quella è un’altra storia.

Da ciò deriva una concreta esigenza ecclesiale: non lasciare mai che i ministri ordinati vivano il ministero in condizione di isolamento, né prima, né dopo, né oltre la promessa celibataria.

Va considerata anche l’altra faccia della medaglia, infatti: se un certo distacco dalla comunità, sottoforma di dimissioni da uffici e ruoli, è richiesta e vissuta da coloro che richiedono la dispensa dagli oneri sacerdotali, non è concepibile che la comunità sia così distratta da lasciare completamente isolati quei ministri che ha formato, tutelato, custodito. Il rischio è quello di ritrovarsi ministri dispensati, senza ufficio e senza ruolo, ma anche lentamente isolati da parte di una comunità che vuole “tutti santi subito”, nel “bene promesso”.

Ma una comunità beata sa come accogliere i tempi di tutti e come valorizzare la sequela di ciascuno. E, sebbene le canonizzazioni siano tante e celeri negli ultimi decenni, bisogna ricordare che le storie delle persone e delle comunità non accettano mazzette, richiedono tempi, modi e circostanze a volte sorprendenti. Bisogna includere le esperienze senza isolare: questa è communio sanctorum, comunione dei santi, da cui e per cui fluisce il ministero sacerdotale, con o senza promessa celibataria.

 



[1] Evito, per brevità, di rammentare la distinzione, non solo tecnico-giuridica, tra “celibato” e “castità”.

[2] A. Potente, La religiosità della vita, [omissis].


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