Noi siamo “spazio” e per questo siamo “Chiesa”
Per una rilettura del luogo dell’assemblea a mo’ di riflessione urgente
Interrompo il "digiuno dal blog" con una breve riflessione, da battezzato e da teologo. Oggi, più che in altri tempi, ho dovuto constatare che la vera sfida della fede sta (anche) nella formazione liturgica. Sembra che non basti mai ricordare che siamo tutti “celebranti” e “chiesa”, e lo siamo nella misura in cui lo vogliamo essere e ne abbiamo consapevolezza. Il modo in cui i nostri corpi vivono lo spazio ce lo ricorda.
Umberto Rosario Del Giudice
Distanziati, moltiplicati e arricchiti
Oggi, Domenica delle Palme e della Passione di Nostro
Signore Gesù Cristo, le parrocchie hanno registrato un aumento di partecipanti.
Sarà la tradizione, sarà la religiosità popolare, sarà il
desiderio… è un fatto: nelle chiese, in questa giornata, si contano più
presenze di quanto si siano riscontrate nelle passate domeniche.
Rispetto all’anno scorso inoltre, potremmo dire, siamo lieti di tornare insieme, in presenza; e questo sarà possibile anche per la prossima
celebrazione del Santo Triduo.
Certo: le dinamiche sono diverse. Ma resta la vera questione:
come identificarsi nell’assemblea “distanziata” e, in questi giorni, “moltiplicata”?
Siamo arricchiti dalla presenza nei numeri ma con posti
limitati.
Siamo di più, ma con posti in meno.
Eppure, siamo sempre assemblea che celebra; e ciascuno, in questa assemblea, è celebrante nella misura in cui passa dalla “presenza” di persone alla “presenza” del Risorto.
Sì: assemblea che celebra, dunque. Bisogna, infatti, ricordalo
un po’ a tutti: come battezzati costituiamo l’assemblea che celebra (e quindi la Chiesa).
Riporto ciò che ho vissuto e che credo possa aiutare a riflettere.
Oggi non c’era posto per tutti in chiesa e, nel tentare di ricordare a qualcuno che eravamo in condizioni non ottimali ma pur sempre assemblea in presenza, mi è “scappato” di dire che eravamo lì “per celebrare”… Qualcuno mi ha guardato incuriosito; qualche altro credeva che avessi sbagliato verbo; la maggioranza riteneva più opportuno ribadire che eravamo tutti lì per “sentire la messa” e quindi l’importante era che l’altoparlante esterno funzionasse.
Ma non è questione solo di verbi: la sana consapevolezza del proprio essere nella fede (“sacerdozio comune”) dice molto sul “partecipare” ed “essere”.
Spazi aperti, spazi chiusi, spazi creati
Arrivato con solo un paio di minuti di anticipo, oggi non ho
trovato posto in chiesa; altri come me. Poco male: era stato assicurato che l’altoparlante funzionava e siamo rimasti sul sagrato e di lato alla chiesa (la parrocchia ha anche
finestre laterali che si aprono ad altezza d’uomo…). Qualcuno ha sbraitato perché
il servizio d’ordine non aveva preparato delle sedie. È stato ricordato loro
che non era possibile, seguendo il protocollo, aggiungere posti a sedere né in
chiesa, né sul sagrato, né in giardino (per fortuna la parrocchia ne ha uno
grande). Ed anche a questo non si può controbattere, forse...
Ma un altro dato era evidente: eravamo in piedi, con altoparlanti
pienamente funzionanti e disposti a far parte della “folla”, non quella che
urlava nel vangelo (secondo Marco) affinché Pilato “rimettesse in libertà per
loro Barabba”, ma quella che, “portando rami d’ulivo” (Antifona 1 per la possibile
processione), acclamava a Cristo.
Ecco: l’assemblea è quella “folla” che acclama. Anzi, tutta la Chiesa è una folla che acclama al suo Signore.
A pochi metri dalla “porta”
del luogo santo, distanziata ma orientata, quella piccola folla è divenuta
chiesa, nella celebrazione comune, nella presenza del Crocifisso e del Risorto,
nella preghiera sacerdotale comune, nell’attenzione della realtà attesa. Quella
“folla” è/era “assemblea celebrante”.
Disposizioni giuridico-canoniche e disposizioni plastico-affettive
Dal punto di vista giuridico, secondo i protocolli, nessuno
avrebbe potuto predisporre sedie. D’accordo.
Dal punto di vista del diritto liturgico, non sarebbero
permesse le celebrazioni all’aperto anche prima, al di là e oltre la pandemia (cfr.
can. 932 §1)[1]: meno d’accordo, ma comprendo che (in casu particulari necessitas) si
rimandi all’Ordinario del luogo la decisione. Tuttavia, il diritto liturgico
dovrebbe fare i conti con la realtà dei celebranti per non cadere nell’abuso di
togliere ad essi spazi leciti, veri, vivi.
Ma non entro nella questione giuridico-canonistica per la quale
bisognerebbe mettere insieme possibilità canonica e restrizione ministeriale: tuttavia un’utile riflessione credo vada posta dal punto di vista (solo) liturgico, poiché ritengo che questo approccio sia valido e imprescindibile presupposto per considerazioni canonistiche.
Al di là delle restrizioni attuali, e al di là delle
possibilità architettoniche, rimane urgente, infatti, accorgersi (ovvero “avere
la consapevolezza”) che l’assemblea celebra e, celebrando, crea spazi.
Non voglio mettere in discussione la necessità dello “spazio
liturgico” delimitato e delimitante (ci mancherebbe). Ciò a cui miro è ricordare a tutti noi che, pur
nell’impossibilità di avere “posti utili” o “capienza sufficiente”, l’assemblea
liturgica di per sé è corpo ecclesiale che, vivendo il
rito, crea spazio rituale e vitale. Non a caso qualcuno ha associato lo spazio
rituale all’iniziazione[2].
Eppure, non è lo spazio a creare identità, ma è l’identità ha circoscrivere lo spazio e a evocare una delimitazione architettonica. Questa è necessaria, ma solo in seconda battuta.
Se, al contrario, “si ascolta la messa” tra una parola e l’altra, poiché “l’importante è sentire ciò che succede dentro”, se “si fa silenzio devoto solo nel momento del racconto”, se si crede che “ci si può concedere un po’ tutto perché siamo qui fuori…”, si rimarrà fuori, fuori dal luogo dell’esperienza di fede. Questi atteggiamenti “distratti” dicono che non ci siamo allontanati da quella devozione medievale per la quale l’importante era vedere l’ostia alzata, anche solo dallo spioncino del portone della cattedrale.
Questo nessun buon cristiano
lo può più accettare: non siamo una folla inerte, siamo un corpo che celebra.
E lì dove il “corpo” è alla presenza del Cristo, lì è Chiesa, lì è assemblea, lì è “spazio sacro”. Se non usciremo dalla devozione rituale, potremo ancora avere folle per la Domenica delle Palme, così per quella di Pasqua o anche nei giorni di Natale, ma la sensibilità non sarà cambiata e la incomprensibilità della fede si farà più pressante perché rimarrà nell’alveo della devozione, della tradizione pasqualina e del ritualismo sterile.
Al contrario, se si è attenti a ciò che vive il corpo, se i celebranti (tutti i battezzati… non solo colui che presiede…)
sono tesi, orientati alla e nella presenza del Cristo, i confini delle mura
diverranno trasparenti e non fermeranno il corpo della Chiesa che è glorioso e
quindi flessibile, plastico, inclusivo.
Lo spazio lo facciamo noi. Così l’Inabitale trova abitazione
e l’Incontenibile può abitare.
La nostra fede vive dell’orientamento plastico dei nostri corpi
e quindi vive anche del modo in cui celebriamo nello spazio. Lo spazio ci aiuta ad essere ma sappiamo che noi costituiamo lo spazio a rimanere tale: un luogo di esperienza inclusiva ed immersiva.
Noi siamo quel che celebriamo.
Ogni domenica.
[1] Canone
richiamato anche nella ben nota Istruzione sugli abusi liturgici… Si
veda: https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccdds/documents/rc_con_ccdds_doc_20040423_redemptionis-sacramentum_it.html#_ftn197
[2] G.
Drouin, Espace liturgique, un espace d’initiation, 2019
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