Cittadinanza politica e appartenenza religiosa

 

 



A margine della bella lettera aperta alla “Cara Costituzione” di mons. Zuppi


Umberto Rosario Del Giudice 

 

Pochi giorni fa è stata pubblicata la simbolica lettera aperta che il Card. Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, ha scritto alla “Cara Costituzione” italiana.

Questo chiaro richiamo ai principi fondamentali del nostro vivere mi aiuta a riflettere su alcune circostanze che vorrei qui condividere.

a.       La sensibilità democratica tra dopoguerra e pandemia

b.      Il Prelato e la Carta costituzionale

 

La sensibilità democratica tra dopoguerra e pandemia

I miei genitori sono nati pochi anni prima della Carta costituzionale che fu promulgata 27 dicembre 1947. Potrei dire che sono figlio anche di quella Carta.

Purtroppo, quando ero piccolo, tra anni ’70 e anni ’80, si respirava una fortissima contrapposizione tra le varie forze politiche che pure, pochi decenni prima, dettero vita a quella Carta. Una contrapposizione sfociata anche in condotte violente da parte degli estremismi ideologici, fuori e dentro gli apparati ufficiali.

Eppure i vari partiti politici del dopoguerra seppero darsi una mano.

La Costituzione, infatti, fu redatta con l’apporto di tutte le forze politiche del ’47. Comunisti, democristiani, liberali, socialisti, tutti contribuirono alla promulgazione di quei principi che ancora reggono. Certo, ognuno batté i pugni per i propri ideali: diritti degli individui (cattolici e sinistra), diritti al lavoro e alla manifestazione (comunisti e socialisti), inviolabilità della proprietà privata e della libera iniziativa (cattolici e liberali), apertura all’unità europea e alla pace (quasi tutte le forze politiche)…

Ma l’equilibrio che aiutò a mettere insieme tutte queste spinte fu presto trovato, e per una ragione molto semplice: pur con le dovute armonizzazioni politiche, ciascun principio era ritenuto da tutti fondamentale per la democrazia, memori del ventennio fascista appena passato. Quei principi erano ritenuti fondamentali per una vera democrazia.

Eppure, sembra strano, il termine “democrazia” è citato solo 4 volte nel testo costituzionale; mentre la parola chiave appare “Repubblica” citata ben 82 (anche se spesso associata a funzioni o organi dello Stato).

Cosa ci dice questo? La vera democrazia è questione di “repubblica”, ovvero, è tale se tutti i cittadini ritengono come prioritario il bene comune, e agiscono nell’interesse della “cosa pubblica”, per la “res”-“publica”, appunto.

Quando il comune interesse fondato sulla dignità delle persone (di tutte le persone) è il motore principale dell’agire e del progresso sociale, non può che esserci “democrazia fondante”. In questo senso, la “democrazia”, in quanto “potere del popolo”, si traduce in “potere di tutti per la dignità di tutti” e non “potere di tutti su tutti” o, peggio ancora, “potere di alcuni su tutti”.

Perché, ricordiamocelo (è già accaduto…), quando il popolo, sebbene come espressione di maggioranza, impone con la propria autorità (con la propria “democrazia”) la discriminazione, l’arroganza, la sopraffazione anche su pochi, quel popolo sta imponendo tirannia, autoarchia, anarchia

Che il popolo decida (democrazia) non significa che lo faccia sempre per il bene di tutti e per la salvaguardia della dignità di tutte le persone.

La Carta costituzionale ci aiuta a ricordare che la libertà è relazione rispettando le identità, che il bene comune è fondamentale per vivere bene, come individui e come gruppo; e ci ricorda anche che quel “bene comune” non può essere tradotto come una idea da difendere, poiché al centro non ci sono le idee ma le “persone”, con la loro dignità inviolabile ( senza fare di “bene comune” o “persona” un concetti ideologici da usare in caso di necessità). L’unica garanzia della democrazia è la salvaguardia della dignità delle persone, come singoli e come gruppo, e senza lasciare che il concetto di “persona” diventi una idea senza vissuti. 

Forse, i figli della Costituzione un po’ hanno dimenticato tutto questo. Lo testimonia il fatto che negli anni ’70 la strategia terroristica mirava proprio ad imporre idee e pregiudizi politici a tutti, anche con la forza spietata, al di là delle persone.

Ma anche i figli dei figli di quella Costituzione oggi potrebbero dimenticare che la libertà «non è mai solo libertà da qualcosa ma per qualcosa», come scrive mons. Zuppi.

In questo periodo di pandemia, le mascherine devono servire sempre più a garantire la cura e la tutela di tutti che semplicemente l’autotutela impersonale. Ed è questo il pericolo: che nel periodo della pandemia si stia dimenticando, dal punto di vista sociale, affettivo e, soprattutto, politico, che la ricerca della custodia del bene comune vale più dei dispositivi di protezione che mirano solo all’autotutela e agli interessi personali. Ma questo è un pericolo che il periodo della “mascherina” ha solo evidenziato. Nel periodo in cui è diventato necessario mettersi la mascherina stiamo smascherando le nostre ambiguità sociali.

 

Il Prelato e la Carta costituzionale

Una delle notizie sorprendenti è che un Cardinale (che tecnicamente è un delegato del Pontefice e che nel cerimoniale della Repubblica italiana ha il rango immediatamente seguente a quello del Presidente della Repubblica pur senza mai presiedere alle cerimonie in caso di assenza del Presidente) si premura di scrivere alla “Cara Costituzione”.

Forse se una lettera aperta l’avesse scritta un politico non avrebbe avuto lo stesso peso per alcuni motivi: è risaputo che molti politici condividono quasi solo nominalmente i principi della Costituzione mentre altri, pur richiamandoli, lo fanno in modo unilaterale o strumentale; dei politici e della politica molti hanno poca fiducia, e questo aggrava la percezione delle parole.

Ma c’è un motivo ben più importante. Mons. Zuppi ha a cuore la “respublica”, è teso a costruire, a fare rete. E questo rende le sue parole più autorevoli sebbene non autoritarie.

Da questo nascono e devono nascere due riflessioni importanti per il cristianesimo e per la politica.

Entrambi, politica e cristianesimo in Italia, devono divenire più autorevoli non con le parole ma con l’unità di intenti: e il primo segnale verso questo cambiamento dovrebbe essere l’uso consapevole e non volgare delle parole, tanto nell’aula parlamentare quanto nel chiuso degli ufficetti politici.

Se i politici e i cristiani oggi riuscissero a “fare rete”, arricchendosi vicendevolmente e nel “rispetto di tutti” e col sostegno per il “bene di tutti” e non “contro qualcuno”, non avremmo solo un fronte comune ma costruiremmo una sensibilità civile e una cultura religiosa più forte perché nata sul rispetto reciproco e sulla difesa di tutti, riconoscendo che “curare l’interesse di tutti” aiuta a essere veramente liberi, nella fede e nella cittadinanza.

È una questione ecumenica e politica che investe l’esperienza ecclesiale cristiana quanto l’appartenenza di cittadinanza.

Allora, i cristiani e i politici dovrebbero essere tutti “prelati” nel senso antico del termine: dovrebbero riuscire a “portare al di là” dell’interesse individualistico il proprio e l’altrui agire, in modo da conquistare una libertà democratica solida e solidale, non solo di facciata.

Tutti dovrebbero “preferire” (altro significato di “præferre”) l’interesse comune (come fratelli tesi alla custodia e alla cura di tutti) anziché difendere il proprio orticello. Così, da cittadini, potremmo esercitare il diritto di voto senza mai usarlo come possibilità di prevaricare su qualcuno; e, da credenti, potremmo immergersi nella preghiera senza mai farlo contro qualcuno o rivendicando una verità contro le esperienze.

Oggi la democrazia come la spiritualità cristiana passa per la capacità relazionale di reciprocità; cittadinanza politica e appartenenza religiosa restano ambigue se non fanno rete per camminare tutti insieme, nel rispetto delle alterità e delle individualità senza mai usare queste contro quelle.

E di questa realtà il vero cristianesimo deve farsi portatore e mediatore, anche in politica.

Grazie a mons. Zuppi e a tutti i “mons. Zuppi” che sono e che verranno.

 


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