Il concorso del paradosso e i numeri precari tra trasparenza e avanzamento professionale
Il concorso ordinario per gli IdR
ha amplificato il paradosso tutto italo-ecclesiale tra riconoscimento culturale
del patrimonio cattolico e diritto al lavoro, esasperando gli animi
e rendendoli più precari. Ma precari e non fruibili sono i numeri relativi ai
dati: quanti insegnanti precari? Quanti da quanti anni?... e con quante ore?
La questione sullo sfondo, su cui
concentrarsi ora, è relativa al “diritto al lavoro” che si incontra e si
scontra con quella al “diritto al lavoro stabile”: ma riflessioni sul diritto
dei lavoratori vanno comparate coi dati reali, che però sembrano poco reali…
D’accordo, è giusto ricordare che
«dicette Munzignore: “Cucchié, va’ chiano, ca vaco ‘e pressa!”», ma è anche
l’ora di fare qualcosa… Altrimenti ci rimettono tutti: cultura civile, qualità
dell’IRC, generazioni di studenti e, nella fattispecie, insegnanti professionisti.
Umberto R. Del Giudice
Ho atteso molto prima di
pubblicare questo post per vari motivi, alcuni dei quali legati alla
perplessità della situazione non chiara in parte con riferimento ai princîpi concorsuali
ma soprattutto in riferimento ai dati mai davvero resi pubblici. E questo
credo sia il vero problema: mancano numeri attendibili con cui analizzare
e riflettere sulla relazione tra diritto al lavoro non precario e (vera) cooperazione
tra Stato e Chiesa. Anche se su quest’ultimo punto la tendenza a conservare
una nicchia di autoritarismo e controllo sia sui lavoratori che sulle attività
didattiche (oltre che sui contenuti) sembra evidente ed è uno dei fattori più
critici di tutta la storia degli ultimi trent’anni.
Sul prossimo bando di concorso
ordinario per gli insegnanti di religione, infatti, oltre alle perplessità
giuridiche e costituzionali, a lasciare con poche parole è la quasi totale
mancanza di dati chiari e precisi.
Insomma, per chiarire la
posizione dei precari non bastano numeri precari.
I dati non sono secondari
rispetto alla possibilità del concorso ordinario pur nella necessità di
tutelare le “anzianità”. La difesa di princîpi generici e generali rischia
di buttare ancor più confusione su di una disciplina “d’Intesa” aumentanto il
suo non apprezzamento rispetto al patrimonio storico e culturale italiano ed
europeo; e mi spiego riflettendo su tre aspetti: il concorso “prossimo”, le
relative aspettative e critiche in riferimento al “diritto al lavoro”, la
impossibilità di capire come stanno davvero le cose… Questo ultimo aspetto non
mi sembra secondario.
Dichiaro subito che va difeso
il diritto al lavoro dei “vecchi” precari (livello di principio di diritto),
ma al tempo stesso bisogna davvero chiarirsi le idee sui dati per capire quante
persone e quali persone corrano davvero il rischio di rimanere fuori (livello
di dati reali e funzionali) e perché.
Il contesto immediato: l’Intesa “è da fare”
La firma dell’Intesa tra MIUR e
CEI dello scorso 14 dicembre ha sollevato non poche preoccupazioni e ha riacceso
il dibattito addirittura sullo statuto giuridico degli Insegnanti di Religione
cattolica in Italia (IdR) con rimandi anche a questioni epistemologiche
rispetto allo stesso Insegnamento di Religione Cattolica in Italia (IRC).
In prima battuta la notizia della
firma dell’Intesa ha suscitato alcuni entusiasmi ma anche molte perplessità poiché,
dopo le Note pubblicate sia dal Ministero dell’Istruzione (MI) che dalla Conferenza
Episcopale Italiana (CEI), il testo è risultato reperibile solo da pochi giorni.
L’Intesa è stata finalmente pubblicata
(allegati inclusi) sul sito CEI nella sezione dell’Ufficio per l’IRC (sulla
sezione del sito del MI a tutt’oggi nessuna traccia oltre la Nota con le
relative foto che riprendono la Ministra Azzolina col suo staff e il Card.
Bassetti e relativo staff, pronti alla “firma
a distanza”…).
Questa ultima Intesa è il
(dovuto) prologo giuridico per la legittima pubblicazione della procedura
concorsuale per gli IdR che dovranno ricoprire i posti vacanti e disponibili
nel prossimo triennio (AA.SS. 2021-2024).
Il testo non concede una lettura
soddisfacente per chiarire alcune questioni che pure sono state sollevate in
questi anni da sindacati del settore ed esperti in materia cosicché si traduce
in una buona e in una cattiva, che, ahimè, aumenta i dubbi più che
dissiparli.
Qui basti ricordare che al punto
5 del testo dell’Intesa si dichiara che
«il 50 per cento dei posti messi
a bando nella singola Regione, ai sensi dell’articolo l-bis, comma 2, del
decreto-legge n. 126 del 2019, è riservato al personale docente di religione
cattolica, in possesso del riconoscimento di idoneità rilasciato dall’Ordinario
diocesano[i], che
abbia svolto almeno tre annualità di servizio, anche non consecutive,
nelle scuole del sistema nazionale di istruzione».
Il testo non concede ulteriori risposte:
che il 50% dei posti del concorso (che nel totale andrebbero a coprire il 70%
dei posti totali per l’IRC) sia riservato a coloro che oltre i titoli hanno tre
anni di “anzianità”, non chiarisce a chi sarebbe aperto l’altro 50%. È molto
probabile che si tratti di altri titolati senza alcuna anzianità. La domanda,
dunque, è: quanti precari con più di tre anni lavorano nelle Diocesi e con
quante ore? E quante sarebbero le cattedre disponibili?...
È possibile che il testo finale
della procedura concorsuale riservi una parte del rimanente 50% ai “più anziani”?
Francamente sembra improbabile anche se sarebbe auspicata una soluzione in tal
senso. E per questo bisogna aspettare il testo del bando.
Tuttavia, rimane la questione di
fondo: quanti precari con più di tre anni? A quanti bisognerebbe assicurare la
continuità di “diritto al lavoro”? quanti posti disponibili? Perché i “precari anziani”
sembrano in alcuni casi “moltiplicati”?
La buona notizia
La buona notizia è che dovrebbe[ii]
essere imminente la pubblicazione del Bando di concorso con il quale molti (non
tutti) gli IdR attualmente precari (ovvero con “contratto a tempo determinato”)
potranno accedere al “ruolo”, ovvero insegnare come lavoratori a “contratto a
tempo indeterminato”. È inutile ribadire che un tale contratto agevolerebbe la
vita di molti: stabilità economica, accesso a credito a lungo termine,
finanziamenti, mutui… Per i giovani IdR (e meno giovani ma non
troppo giovani) questo sarebbe un sogno che si realizza… Una prospettiva di non
poco conto nell’ambito di una società (italiana) che, pur ricorrendo sempre
meno al “posto fisso” e richiedendo competenze professionali ad ampio spettro
capaci di una certa “mobilità e flessibilità”, non offre sicuramente alcun
altro lavoro ai teologi e ai laureati in scienze delle religioni. Dato da
non trascurare visto che in altri paesi europei le stesse competenze sono riconosciute
anche nell’ambito della pastorale e della catechesi parrocchiale con una
rimunerazione giusta a carico dello Stato e con un sistema
simile (anche se non proprio in continuità) con quello che in Italia è
conosciuto come 8x1000.
Come tenterò di illustrare,
spesso, con lo spacchettamento delle cattedre, si è tentato di
remunerare con l’IRC coloro che risultano attivi nelle parrocchie: fatto
che genera confusione sia per la reale comprensione ecclesiale e ministeriale
del servizio parrocchiale sia per il mancato riconoscimento delle
competenze, tanto culturali quanto professionali; e tutto questo anche a scapito
di una non perfetta complementarietà tra catechesi e IRC, sempre più confuse e,
talvolta, inefficaci.
Il concorso, dunque, appare come
buona ma anche come cattiva notizia; ma appare anche come l’opportunità di
ridefinire competenze e piani senza procrastinare ambiguità ecclesiali e difese
culturali.
La notizia (molto)
cattiva
Sembra che la notizia dell’Intesa
sia anche molto cattiva, o almeno lo sarà per alcuni (che, nella logica
ecclesiale, si dovrebbe tradurre “per tutti”).
Un concorso “ordinario”
(perché di questo si tratta) finirebbe col lasciare alcuni attuali e anziani
precari nella stessa riprovevole ed incostituzionale situazione di lavoratori col
contratto a tempo determinato, e questo con forte disinteresse dei
diritti acquisiti sul campo quanto delle competenze professionali
che, se non considerate, rischiano di vanificare o addirittura del tutto annullare
valutazioni individuali capaci di costituire un vero sistema meritocratico.
In altre parole, come è stato detto da più parti, l’impegno e le competenze
pedagogiche e didattiche acquisite negli ultimi 10, 15, 20… anni sarebbero
completamente misconosciute favorendo, al contrario, l’inserimento di
giovani IdR in un “ruolo” che non avrebbero “meritato”.
Dalla notizia buona o cattiva
ecco però che sorge una “lotta dei poveri/lavoratori precari”: perché se
è vero che non si possono condannare alla precarietà/licenziamento molti IdR
che da anni sono precari, è vero anche che non si può infliggere ad
altri la medesima incostituzionale, non dignitosa e non professionale “condanna
di precarietà”.
Quale sono state le scelte
passate che hanno prodotto l’attuale situazione di stallo e di “guerra tra professionisti
cattolici”?... Basterebbe un altro concorso ordinario tra tre anni per
risolvere la faccenda?
Ma facciamo alcuni piccoli passi.
Le critiche al concorso
ordinario
Già da tempo, sindacati ed
esperti avevano riferito circa alcune criticità del concorso ordinario fino ad
arrivare a palesare i propri dubbi alla Commissione per l’Istruzione sintetizzando
i punti critici di un possibile “concorso ordinario” (così il prof.
Sergio Ventura e il prof. Nicola
Incampo). Ecco in sintesi le questioni sollevate dagli esperti in
riferimento ai concreti rischi del Bando di concorso ordinario:
1.
esito con licenziamenti o forzose
diminuzioni di orario;
2.
non riconoscere che l’idoneità
all’Insegnamento della Religione Cattolica corrisponda giuridicamente all’abilitazione
conferita dallo Stato per gli altri insegnanti;
3.
il concorso, inoltre, non selezionerebbe i “migliori”
IdR [espressione molto limitata, nda], violando in tal senso le linee guida per
i concorsi pubblici in relazione al merito (MPA, Direttiva n.3 del
24/4/18), forse prospettandosi un ulteriore aspetto di incostituzionalità (ex
art. 97 Cost.);
4.
il concorso ordinario produrrebbe, infine, discriminazioni.
Tutti questi punti sono ripresi in
un esaustivo articolo già pubblicato sulla rivista de “Il Regno” col titolo di “Insegnanti
di religione: quale concorso?” e datato 24 febbraio 2020.
In sintesi (come appare dalla soluzione
auspicata da molti sindacati e che trova formale istanza in una petizione
online): «NO al concorso ordinario per i precari oltre i 36 mesi di
servizio. Sì a un concorso riservato, per titoli e servizio».
Va dunque difeso il diritto al
lavoro dei “precari più anziani”: ma bisogna pure riproporre riflessioni
nette sulle questioni sollevate.
Le critiche all’appoggio
della CEI al concorso ordinario
Sono molto rilevanti e giuste le
critiche mosse non solo alla forma ordinaria del concorso ma anche circa l’appoggio che
la Presidenza della CEI ha dato a tale assetto.
Andrea Grillo, nel suo intervento
dal titolo “Senza
rispetto” per gli insegnanti di religione: ma il Ministro Azzolina con quale
vescovo ha parlato?, spiega: «Come cittadini italiani, e in qualità di
docenti rimasti per 16 anni privi della possibilità di entrare in ruolo con
regolare concorso, essi [gli IdR] ora scoprono che il concorso che sta per
essere bandito non tiene in nessun conto la anzianità di servizio, che per
i più esperti arriva fino a quasi 20 anni, e che pertanto, ai fini del bando,
saranno equiparati coloro che insegnano da 3 anni e 1 giorno e coloro che
insegnano da circa 20 anni». A questo bisogna ahimè aggiungere che, tenendo
conto del possibile altro 50% dei posti disponibili, un anziano precario, in
linea di principio, potrebbe essere sostituito da un titolato senza esperienza.
Ma bisogna aspettare il bando…
Il giorno dopo sempre Andrea
Grillo annota ulteriormente che «se il lavoro di formazione culturale del
docente IdR fosse ritenuto davvero rilevante, non si accetterebbe la sua
irrilevanza per il Concorso. Si preferisce forse un catechista obbediente
ad un professore formato, critico e stabile? Proprio concedendo tanto spago
alla posizione ministeriale, la visione dei responsabili CEI sembra poco
abituata a pensare laicamente» (Modello
trentino e modello tridentino: dimmi che concorso vuoi e ti dirò chi sei).
Il 22 dicembre appare un altro
chiarimento dei “no” al concorso ordinario con un articolo a firma di Sergio
Ventura dal titolo La
chiesa italiana sulla via di Francesco? che ribadisce, incalzando, le
motivazioni apparse nell’articolo citato de Il Regno cofirmato con Massimo
Pieggi e che conducono ad un’unica soluzione: no al concorso ordinario.
Quello che va assolutamente
condiviso con Andrea Grillo, Sergio Ventura e con Massimo Pieggi è che, stando
così le cose, a) il concorso ordinario previsto davvero non tiene conto
dell’anzianità di servizio. E sempre con loro b) va appoggiata e
sollecitata qualsiasi collaborazione e cooperazione seria tra i due poteri
(civile ed ecclesiastici) senza che a rimetterci siano i lavoratoti
professionisti. Insieme a loro, questi due punti devono essere tenuti per
imprescindibili.
Tuttavia, alle loro denunce aggiungo
personali chiarimenti che spero anche loro possano condividere e che mirano da
una parte a evidenziare che una certa collaborazione piena Chiesa-Stato già ci
sarebbe ma anche che i numeri reali delle Diocesi non accessibili forse potrebbero
diminuire le preoccupazioni pur nella necessaria difesa del “diritto al lavoro”
e del “riconoscimento dell’anzianità”.
Cosa davvero non va (a mio parere) nel concorso
ordinario
Personalmente credo che il
concorso nella forma “ordinaria” sia un problema anche se non per tutti i
motivi esposti dai relatori alla Commissione parlamentare già nel febbraio 2020.
Credo che il vero scandalo non sia tanto la forma ma la lentezza (e non
trasparenza) che ha portato allo status quo. E forse le colpe di
questa lentezza vanno rilevate negli atteggiamenti un po’ di tutti, autorità politiche
ed ecclesiali come anche di alcuni sindacati (forti).
Spiego le mie perplessità.
Il concorso discriminante, illegittimo e incostituzionale?
È chiaro che cercare il “concorso
perfetto” per assumere “docenti perfetti” o rimandare tutto sine die
al fine di stare “tutti un po’ benino” non sembra davvero una soluzione “solidale”
e “eticamente ancora sopportabile”, anche se da più parti invocata. Davvero non
comprendo come rimandare il concorso ad ogni costo sia una soluzione.
È certo però che la soluzione
sarebbe quella di emanare il concorso con un congruo numero di posti
riservati. Ma in che modo e perché?
Tento di rispondere ad alcune
obiezioni che sono state usate come motivazioni fondanti l’avversione al
concorso ordinario delle quali però, a me pare, solo una è davvero meritevole
di attenzione pur nel dubbio dei dati (che sono il vero punctum dolens).
A proposito della idoneità e della abilitazione
Sarebbe incostituzionale non riconoscere che l’idoneità
all’IRC corrisponde giuridicamente all’abilitazione conferita dallo Stato per
gli altri insegnanti? Assolutamente no!
È vero (e lo dico spesso anche io
per semplificare) che il decreto dell’Ordinario del luogo (in quanto atto
amministrativo singolare) avrebbe valore abilitante in sé, ma va tuttavia
chiarito che il valore non è univocamente potestativo poiché è finalizzato ad
un contesto non canonico (e rientra nelle cosiddette res mixtæ perché di comune interesse).
In altre parole, se è vero che l’idoneità, quale atto amministrativo del
Vescovo non può essere impugnata da nessuna autorità italiana è vero anche che
non è l’unico atto potestativo che riguardi l’abilitazione; in altre parole, se
è vero che
«l’avere le norme concordatarie
affidato in via esclusiva al giudizio dei competenti organi ecclesiastici la
dichiarazione di idoneità all’insegnamento della religione comporta bensì l’impossibilità,
per il giudice italiano, di censurare ex se l’atto dichiarativo in parola» è
altrettanto vero, e questo deve essere chiarito, che «ciò non significa che esso non possa qualificarsi
come atto endoprocedimentale finalizzato all’emissione dell’atto di
nomina che resta di competenza dell’Autorità scolastica italiana» (Consiglio di Stato, Sezione
VI, sentenza n. 6133 del 24 marzo 2000)
In altre parole, se l’idoneità è un decreto amministrativo
singolare (ex cann. 35 e 47) per l’IRC (ex can. 804 §2 CIC) su cui nessuno
autorità italiana può intervenire, è pur vero che esso, nella fattispecie e
per forma di accordo bilaterale, è finalizzato per sua natura all’IRC nelle
scuole italiane e, in riferimento al fine, è relativo ad un atto complessivo
endoprocedimentale su cui la Repubblica ha il suo dire in relazione ai
criteri di “ragionevolezza e di non arbitrarietà”; per cui il decreto di
idoneità del Vescovo non è sindacabile in quanto valido in sé ma in riferimento
al suo fine (l’IRC nella scuola italiana) resta «soggetto, perché possa
costituire valido presupposto per la legittimità dell’atto di nomina e della
sua revoca, ad un riscontro del suo corretto esercizio secondo criteri di
ragionevolezza e di non arbitrarietà» come ha poi ribadito la Corte
costituzionale (Corte
costituzionale, Sezioni Unite, Sentenza n. 574, del 14 novembre 2002).
In altre parole, sarebbe impensabile sostenere (come fa
qualcuno) che il solo decreto di idoneità sarebbe valido per l’immissione in
ruolo senza alcun controllo da parte della autorità civile, controllo che
invece avviene proprio col concorso. Giustamente, dunque, è stato rilevato che vi
è una netta differenziazione tra “abilitazione” (materia mixta) e
“idoneità” (riservata all’autorità ecclesiastica), che è espressione del
“principio della distinzione delle competenze ‘proprie’, riconducibili a due
distinte non sovrapponibili sovranità”, ma al tempo stesso rende manifesto “il
senso della cooperazione tra due ordini differenti”. In questa prospettiva, dunque,
il solo decreto di idoneità non basterebbe: nella realtà le due differenti autorità,
ecclesiastica e civile, concorrono alla abilitazione[iii].
Ed è su questa collaborazione che si gioca molto dal punto
di vista giuridico (sia canonico che civile) come senso solidale di
giustizia oltre che dal punto di vista della cooperazione scientifica e
dottrinale, come giustamente ha ricordato Andrea Grillo richiamando il “modello
trentino” nel succitato intervento.
Sostenere, come fa qualcuno, che l’idoneità sarebbe da
sola abilitante (e quindi il concorso sarebbe solo una forma di riconoscimento
civile) è davvero giuridicamente non fondato ma anche, a mio parere,
pericoloso: sull’abilitazione si gioca la vera cooperazione tra Stato e Chiesa
in relazione al riconoscimento della valenza culturale e patrimoniale del
sapere teologico per il sapere civile.
Lo prova, inoltre, il fatto che il concorso stesso riguarderebbe
non i contenuti dei princîpi del cattolicesimo che “fanno parte del patrimonio
storico del popolo italiano” (si veda il cosiddetto “Accordo di Villa Madama”
del 1984) ma quelli relativi alla legislazione scolastica e alle scienze
dell'educazione. Come dire: lo Stato non sindacalizza l’idoneità in sé ma verifica
quella, tenendo conto di criteri di ragionevolezza e trasparenza, per
l’abilitazione. Le prove concorsuali, infatti, verteranno, secondo quanto
previsto, su “accertamento della preparazione culturale generale e didattica come
quadro di riferimento complessivo, e con esclusione dei contenuti specifici
dell’insegnamento della religione cattolica” (art. 3 comma 5 legge 186/2003); inoltre, “nel rispetto di quanto previsto […] la preparazione dei candidati è
valutata con riferimento ad un programma d’esame comprendente, oltre a quanto
previsto nel citato comma 5, anche la conoscenza delle Indicazioni
didattiche per l’insegnamento della religione cattolica” (Intesa 14
dicembre 2020).
Certo che una commissione mista sarebbe auspicabile… ma questa
è un’altra questione…
Il concorso è “discriminante”?
Il Concorso ordinario sarebbe davvero
“discriminante”? Aggiungerei, “per chi?”. Sarebbe discriminante per
tutti quelli che hanno anni di esperienza e di precariato: e questo è un
dato certo. Ma il precludere le porte ai giovani professionisti che hanno
pochi anni di insegnamento e un profilo curriculare professionalizzante adeguato
sarebbe, a mio avviso, altrettanto discriminante.
Se è giusto difendere i diritti
dei lavoratori che da anni e da decenni sonno precari, è anche giusto e lecito difendere
i diritti e le attese di chi, sebbene con soli tre anni e un giorno di
insegnamento, si è preparato anche con “nuovi” corsi ed esami, formandosi all’insegnamento
col “primo” tirocinio formativo della storia delle Intese tra MIUR e CEI per
gli IdR. Non è un caso che dopo l’Intesa del 28 giungo 2012 sia vincolante, oltre
ai titoli, un curriculum che attesti il conseguimento di crediti formativi per corsi
quali Didattica generale, Metodologia e Didattica dell’IRC, Teoria
della Scuola, Legislazione scolastica oltre alla formazione col Tirocinio
formativo di non meno di 100 ore… (per almeno altri 12 ETCS). Sebbene
sia vero che chi ha insegnato prima del mese di settembre 2017 non ha avuto la
necessità giuridica e curriculare di conseguire quegli ECTS, è pur vero che le
Facoltà teologiche e gli ISSR avevano già dal 2013 attivato i rispettivi corsi
e tirocini (qualcuno già da prima). Quella Intesa, tra l’altro, mirava proprio
alla professionalizzazione degli IdR in riferimento alle competenze
pedagogiche, didattiche e alla consapevolezza delle finalità della scuola
nonché del suo complesso quadro normativo. E non bisogna dimenticare che alcuni
“insegnanti professionisti precari anziani” sono stati cooptati all’insegnamento
senza neanche un diploma diocesano di teologia e senza, ovviamente, alcun
studio dell’area giuridico-didattica per la scuola italiana: e questo non per
colpa loro. È anche evidente che molti professionisti precari anziani hanno
saputo (a loro spese e con grande fatica) colmare la lacuna; anche perché molti
corsi o eventi di aggiornamento hanno tenuto conto più di tematiche teologiche
e spirituali (come in occasione dell’anno della Misericordia) che di temi
relativi alla didattica, alle metodologie e alla legislazione scolastica[iv].
Inoltre, è chiaro che le abilità acquisite sul campo nel corso di decenni di
insegnamento sono molteplici e non possono essere confrontate in modo
semplicistico con competenze conseguite coi nuovi corsi curriculari e col
Tirocinio formativo. Si opporrebbero così precari professionisti con giovani
professionisti.
Ma basterebbe davvero solo questo
per dire che i “primi” sono “migliori” dei “secondi”? Sostengo la
necessità e l’onestà di non fare nessun confronto se si vuole
parlare di meritocrazia. Credo che sia più giusto e corretto parlare
solo in riferimento al “riconoscimento del tempo di lavoro (precario) già
svolto”.
E quindi bisogna stare attenti
a tutte le discriminazioni.
Sui “tre anni”
Va anche chiarito che in
relazione ai “tre anni” valutabili essi possono non essere consecutivi e che
per “anno valutabile” s’intende quello con almeno 180 giorni consecutivi in un
solo anno scolastico o di servizio ininterrotto dal primo febbraio fino al
termine delle operazioni di scrutinio finale (cfr. art. 11, n. 14 Lg 124/1999).
In questo senso, e considerando
quanto sopra si è detto, una quota di posti riservati per chi ha ben più di
soli tre anni è d’obbligo pur senza sostenere la promulgazione né di un concorso-farsa
né di un concorso-sanatoria.
Ma qui nascono altre domande tra cui
quella fondamentale: quali sono le quote?...
Ecco la vera questione: ci
sarebbero davvero licenziamenti o forzose diminuzioni di orario?
Per rispondere a questa domanda
si dovrebbero avere dati affidabili.
Ed è questa la notizia: dati
affidabili non sembrano esserci.
Dati affidabili?
Il concorso dovrà tener conto dei
numeri disponibili ma ad una ricerca incrociata non si è capace di trovare informazioni
in merito.
Il vero problema credo risieda
qui: non ci sono dati affidabili su cui ragionare e quelli che ci sono
aprono a considerazioni che ribadiscono la necessità di evitare autonomie
ecclesiastiche troppo autogarantiste.
Questo significa che i numeri
reali dei precari e dei posti disponibili (che devono essere conteggiati
secondo i posti che «si prevede siano vacanti e disponibili negli anni
scolastici dal 2020/2021 al 2022/2023»[v])
non sono al momento rintracciabili e consultabili.
La gestione degli Uffici di
Pastorale scolastica, com’è noto, non è cosa semplice. I Direttori, insieme con
gli Ordinari del luogo, agiscono spesso con grande attenzione ai casi singoli.
Questa “prudenza cristiana” però
ha un doppio prezzo da pagare: non tutte le Diocesi compilano o pubblicano le graduatorie
interne relative al 30% e, di questa quota, molte Diocesi hanno nel
tempo “spezzettato” le cattedre con l’effetto non secondario di moltiplicare
i precari. In altre parole, ci sarebbero persone che hanno molti anni di
precariato ma, forse, non superano né le 12 ore all’anno né le supplenze quasi occasionali.
Spezzettare le cattedre è stata una delle consuetudini
più deleterie per gli IdR. La mentalità autogarantista, per assicurare un
po’ di entrate a tutti quei “volontari della parrocchia” che nel tempo hanno
conseguito diplomi diocesani, titoli accademici o laurea in scienze religiose,
e per distribuire un po’ di lavoro a tutti, ha favorito in molti casi spacchettamento
di cattedre col duplice effetto di moltiplicare i precari e di
meglio controllare l’insegnamento (controllo direttivo o preventivo).
Questi precari però rientrerebbero in quale conteggio se si aprisse una
“riserva” nel concorso ordinario, in quale numero? Ecco perché i dati sarebbero
davvero interessanti se fruibili ed ecco perché si parla di forzose
diminuzioni di orario: per dare 18 ore ai nuovi IdR di ruolo diminuirebbe
lo spazio per le cattedre spezzettate (è matematica!)…
Ma il problema l’ha creato lo spezzettamento delle
cattedre non le cattedre in sé. Dividere 24/18 ore per due o tre o
addirittura quattro docenti ha moltiplicato in molti casi il numero dei precari
con anni di anzianità.
E chi si troverà più in crisi saranno gli insegnanti di quelle
Diocesi che hanno continuato la consuetudine dello spezzettamento… Ma i dati per
ciascuna Diocesi non sono fruibili e consultabili.
Dubito fortemente che i sindacati vogliano difendere la
consuetudine dello spacchettamento.
A tutto questo va aggiunto anche che
non ci sono dati attualmente affidabili su quanti posti disponibili per la
rimanente quota del 70% ci siano per ogni Diocesi. Negli ultimi anni molti
IdR hanno cessato la professione (pensionamento, quota cento, decesso,
altra attività, altro ruolo scolastico…). Non ultima la notizia
che tra alcune Diocesi e i relativi Uffici scolastici regionali non ci
sarebbero graduatorie e nominativi aggiornati: il docente che per la Curia è
andato in pensione almeno due anni fa, per l’Ufficio scolastico è ancora in
attività; l’altro docente che per la Curia è passato ad altro incarico
scolastico, per l’Ufficio è sempre IdR…
Insomma, i numeri reperibili fanno
riferimento a un dato davvero non attendibile: basti pensare che gli stessi Massimo
Pieggi – Sergio Ventura nel loro intervento del primo luglio 2020 citano 13.000
IdR precari; lo stesso numero già citato in un articolo della rivista IRINEWS
del 1 aprile 2013 (Gli
insegnanti di religione chiedono un concorso e una graduatoria ad esaurimento,
pag. 4): sette anni di distanza e nessun differenza? Si stenta a crederlo…
Una ricerca sul più popolare
database di dati riporta la seguente notizia:
«Nell’anno scolastico 2009/10 in
Italia vi erano 26.326 insegnanti di religione, con un aumento del 4% rispetto
a quelli dell’anno scolastico 2008/2009. Gli insegnanti di ruolo erano 12.446 e
i precari 13.880». Se quest’ultimo numero è vero nel 2009 come possono i
precari essere 13.000 nel 2013 e, ancor più, nel 2020 visto l’incremento (questo sì
documentabile) degli avvalentesi? E soprattutto, se questi dati sono
rimasti almeno stabili, è evidente che è saltato da molto tempo il rapporto 70%
- 30% tra IdR di ruolo e precari protraendo un evidente situazione
giuridicamente illegittima e ecclesialmente insostenibile.
Ad una breve analisi poi degli
avvalentesi è chiaro che c’è una netta distinzione tra nord, centro e sud
Italia (rispettivamente 81,77%, 84,71%, 97,16%). Ma è da considerare poi che
molte diocesi del nord accolgono volentieri giovani professionisti del
sud per mancanza di IdR e alcune diocesi del sud, poi, stanno nominando supplenti
anche giovani studenti che conseguiranno il titolo a giugno…
Insomma, quali sono i dati? Quali
sono i numeri? Se è vero che il concorso ordinario non sia poi rispettoso del
lavoro svolto e della condizione di precariato contrattuale di molti professionisti,
quanto è vero che questi possano essere scavalcati dai “giovani
professionisti”?
I Vescovi o l’Ufficio competente
della CEI hanno numeri realistici e rassicuranti a riguardo?
Domande non secondarie rispetto
al concorso.
Per chi non riesce ad arrivare
alla fonte dei dati e se non ci sono i numeri ufficiali sarà difficile fare
ulteriori considerazioni pur ribadendo fermamente un punto chiaro: gli anni
di attività devono trovare riconoscimento.
Ma allo stato attuale e da una
breve riflessione, le Diocesi interessate sembrano essere quelle che hanno spezzettato
le cattedre e se non è così, non è dato di saperlo…
Tutto questo racconta una certa
confusione generalizzata circa un insegnamento d’Intesa come quello dell’IRC
che attende professionalizzazione, certezze, trasparenze,
e, davvero, non discriminazioni o ghettizzazioni tantomeno strumentalizzazioni.
La vera “funzionalità” dell’IRC in termini di servizio ecclesiale e sociale
risiede negli IdR e nella loro capacità umana e culturale di sintesi tra
dimensione religiosa e dimensione intellettuale: e questo è proprio degli
IdR in quanto professionisti della mediazione culturale e che, per questo, devono
conservare una propria equidistante dignità, sociale ed ecclesiale. È
evidente che un contratto a tempo indeterminato sia utile perché un tale
riconoscimento avvenga in entrambe le sfere senza confondere i piani e le
competenze.
Sì al concorso (anche ordinario) con dati reali e
trasparenti
Il concorso ordinario per gli IdR
ha amplificato il paradosso tutto italo-ecclesiale esasperando ancora gli animi
e rendendoli più precari… Davvero non si comprende su quali dati sia fondata
la necessità di dare via libera ad un concorso ordinario senza ulteriori
garanzie per gli IdR con anzianità pregresse. Non si comprende però neanche
in quale altro modo e senza ulteriori rimandi si possa davvero passare da
una situazione illegittima per tutti ad una fase di “ordinarietà” nello statuto
giuridico dell’IdR e soprattutto ad una collaborazione effettiva e fattiva tra
Stato e CEI.
Il concorso va fatto senza
lasciare nessuno meritevole a casa: ma questo solo i dati reali ce lo possono dire.
Allora quali sono i dati su cui ragionare? E perché si è lasciato per lungo
tempo moltiplicare i precari?...
È chiaro che i vescovi hanno il dovere,
etico e civile, di difendere il diritto al lavoro. Ma è chiaro anche che
il concorso non può essere una semplice sanatoria senza considerare le
professionalizzazioni né può creare una guerra di professionisti.
Ma esiste davvero il pericolo che
qualcuno che finora ha insegnato con cattedra piena e ha ricostruzione di
carriera rimanga a casa?
Per fare queste valutazioni c’è
bisogno di dati certi per il presente e, in futuro, di una gestione più
trasparente da parte di tutti gli Uffici di pastorale scolastica.
Le informazioni che giungono da
più parti sembrano rassicurare sui posti disponibili pur nella differenziazione
tra nord, centro e sud Italia.
In alcune Diocesi (compresa quella
del Vicariato di Roma), non solo alcune ore per l’IRC sono affidate a religiosi
e religiose che dopo qualche anno lasciano la città per motivi interni agli Istituti
di vita consacrata, ma sono anche spesso in cerca di personale supplente… La
Diocesi di Arezzo, onde evitare spiacevoli inconvenienti, ha stabilito che per insegnare
è richiesta la residenza in loco: e non è l’unica diocesi a farlo. Se molti
insegnanti si recano in altre diocesi a lavorare è perché in quelle diocesi non
ci sono IdR…
Ma sono solo congetture (sebbene riferite a notizie personalmente appurate) perché
mancano i dati ufficiali Diocesi per Diocesi…
Forse sarebbe anche un bel gesto se
presbiteri e religiosi non si presentassero al concorso ordinario: ma questa è una
valutazione che ciascuna persona dovrebbe fare in relazioni a dati della propria
Curia…
In ultima analisi, mi auguro (anche
come precario anziano) che l’anzianità venga riconosciuta ma anche che la
gestione complessiva delle cattedre per l’IRC diventi sempre più trasparente, sempre
più avulsa da qualsiasi controllo apologetico e da qualsiasi clientelismo, e
tutto a favore del sapere teologico offerto quale patrimonio storico della
cultura italiana ed europea e che sia messo un punto alla distanza che c’è tra
una gestione ecclesiale (non ecclesiastica) e una civile (non solo
ministeriale) i cui effetti negativi ricadono sui lavoratori e sugli studenti.
L’unica distanza tra CEI e MIUR che
concediamo, la sola sopportabile, è quella fisica per la firma dell’Intesa: ma
la vera considerazione dell’IRC passa anche attraverso il riconoscimento civile
e la stabilizzazione del lavoro di tutti gli IdR. Creare spazi di trasparenza e
di progressione professionale seria. Questa sarebbe davvero una buona notizia.
1.
la lentezza storica, politica ed
ecclesiastica, ha determinato notevole confusione;
2.
non si può temporeggiare oltre rispetto ad un
concorso già atteso da anni;
3.
i sindacati non devono fare ostruzionismo;
4.
le Curie devono elaborare dati nella massima
parte trasparenti;
5.
la CEI deve essere (più) sicura dei dati;
6.
ci sono delle imprecisioni nella ricostruzione e
nelle richieste rispetto al concetto di “idoneità-abilitazione”;
7.
lo spezzettamento delle cattedre ha creato
ulteriori precari;
8.
lo spezzettamento delle cattedre tende a
favorire il controllo delle Curie sugli insegnanti
9.
posti ce ne dovrebbero essere;
10. il ruolo aiuterebbe a garantire maggiore giustizia e imparzialità.
[i] Potrebbe indurre a confusione il
testo del precedente punto 4 che recita: «tra i requisiti di partecipazione
alla procedura concorsuale è prevista la certificazione dell’idoneità diocesana
di cui all'articolo 3, co=a 4, della legge 18 luglio 2003, n. 186, rilasciata dal
Responsabile dell'Ufficio diocesano competente nei novanta giorni antecedenti
alla data di presentazione della domanda di partecipazione». È evidente che il
Responsabile rilascia una certificazione del decreto di idoneità e non è, né può
essere, l’autore del decreto.
[ii] Il condizionale è d’obbligo in questi casi. La legge vuole che il bando sia pubblicato entro il 31/12/2020, ma… [aggiornamento: il decreto milleproroghe ha rimandato la pubblicazione del concorso ]
[iii]
G. Dammacco, Stato giuridico
dell’insegnante di religione e ordinamento italiano, in L’insegnamento
della religione cattolica in una società pluralista, a cura di G. Dammacco,
Bari 1995, p. 37, secondo il
quale l’idoneità è “inequivocabilmente” un atto “interno dell’ordinamento
canonico” che contribuisce “insieme con l’abilitazione (…), atto equivalente
distinto e interno all’ordinamento statale”, a delineare lo status giuridico
del docente.
[iv]
Purtroppo, bisogna segnalare che alcuni IdR non sono mai stati iniziati né alla
didattica per competenze né alle nuove Indicazioni nazionali per l’IRC
(per primo ciclo – 2010 – e per secondo ciclo – 2012).
[v] Cfr. Dlg, n. 126 del 2019, art. 1-bis.
Commenti
Posta un commento