Dalla “commendatio animæ” alla “applicatio missæ” fino alla preghiera nel comune sacerdozio
A mo’ di reazione ad un post e di replica ad una commemorazione
È appena passato il giorno dedicato alla commemorazione dei defunti ed è stato anche il giorno in cui, come per chiarire le idee, è apparso un prezioso commento di Andrea Grillo circa la stessa commemorazione. A molti modi di sentire e vivere la commemorazione replico; al post di Grillo reagisco con gratitudine e continuità canonica.
Umberto R. Del Giudice
Introduzione
È stato pubblicato da poche ore un
prezioso contributo al dibattito sulla commemorazione pro defunctis di Andrea Grillo. A questo
articolo (il primo di vari interventi, come anticipato dall’autore), senza
alcuna pretesa di esaustività ma sull’onda soprattutto emotiva di una giornata
intensa, faccio seguire una reazione che parte da due osservazioni: una social
e l’altra canonistica.
Constatazione social: in
questi giorni si sono moltiplicati sul web richieste e format per la preghiera
di suffragio dei defunti.
Constatazione canonica: due
sono le principali e paradigmatiche preoccupazioni del Codice di diritto
canonico (CIC) circa il suffragio dei defunti. La prima risiede nella cosiddetta “applicazione
della messa”; la seconda nella celebrazione delle esequie.
Il suffragio social
Su questo mi limiterò a segnale
alcune iniziative.
In questi giorni si sono
moltiplicati anche sul web, format che consentivano l’indicazione di uno o più
nomi di fedeli defunti per l’applicazione delle messe del 2 novembre. È vero
che in alcuni casi i format sul web non chiedevano esplicitamente donazioni ma
recepivano informazioni sensibili circa il nome, il cognome ed altri dati
personali del richiedente con anche la possibilità di scrivere brevi messaggi/preghiere/intenzioni che fanno pensare
alla possibilità di ulteriori comunicazioni ad hoc a mo' di newsletter.
Sono apparsi anche dei format che
potevano essere compilati per essere sicuri che il proprio caro defunto fosse
ricordato nella Santa Messa: prima o dopo, la citazione della “donazione” era
visibilissima. Su uno di questi siti così si legge:
«S. Messa
Commemorazione Fedeli Defunti 2 novembre 2020
Per fare
un’offerta per le opere di carità a favore dei bambini che accogliamo in XXX e
in YYY può cliccare qui https://[abcdefg] (con bollettino postale, carta di
credito o bonifico)
(Le richieste di
preghiera per i propri cari arrivate durante la giornata saranno nelle
intenzioni della prossima celebrazione odierna alle ore 18.15 celebrata da don X
Y) [poi mandata in diretta sulla pagina FB dell'associazione o della parrocchia]».
Insomma, pur essendo certi della buona fede di tutti, è
anche vero che basta poco per passare dal “guadagnare le indulgenze” a “guadagnare
dalle indulgenze”. Ma questo e altro tema.
In ogni caso al di là dei format
la mentalità supportata e presupposta è quella della necessità di una o più
celebrazione eucaristica per “guadagnare” indulgenza per i defunti. Ed è questo
a fare problema.
In realtà il tema decisivo, come si vedrà, non è
l’offerta per l’applicazione della Messa ma è il concetto stesso di “applicazione pro defunctis” che fa
problema, come si evince da una semplice ricognizione del Concilio Vaticano II.
Constatazione canonica e fonti
Nel CIC abbiamo due concetti
fondamentali rispetto ai defunti e alle liturgie/azioni che li riguardano: un
concetto è quello di “applicazione” (della messa); l’altro è quello di “esequie”.
Intenzione e applicazione necessaria per i defunti?
Col primo (quello delle
applicazioni) si ribadisce la possibilità di “pregare per qualcuno in
particolare” sia vivo che defunto: così infatti recita il can.
901:
«Il sacerdote ha diritto di applicare la Messa per
chiunque, sia per i vivi sia per i defunti».
Da questo canone si coglie la possibilità di fare in modo
che vi sia una “intenzione” particolare della comunità celebrante a favore di
una necessità o per le esigenze di un fedele o un gruppo di fedeli, vivi o
morti. All’uopo il CIC tratteggia bene i doveri e i doveri di chi, chierico, applica
un’intenzione o accoglie la richiesta di applicazione di intenzione particolare
e dedica un intero Capitolo alle offerte per la celebrazione della Messa (Lib.
IV, Tit. III, Cap. III, ovvero cann. 945-958).
Si noti, tra l’altro che, il can.
945 § 2 recita:
«È vivamente raccomandato
ai sacerdoti di celebrare la Messa per le intenzioni dei fedeli, soprattutto dei
poveri, anche senza ricevere alcuna offerta».
Ma è ancora più sorprendente il
fatto che in questo Capitolo (cioè in tutto il CIC rispetto alle "intenzioni") non è mai
immediatamente relazionata "intenzione" con "fedeli defunti". Le intenzioni
per l’applicazione della Messa sono, come recita il can. 901, per le varie
necessità dei fedeli, vivi e defunti e fanno parte dei “diritti” del chierico. Questo
fa comprendere bene che il contesto del canone è relativo al canonico diritto del chierico e non alla necessità teologica dell’applicazione dell’intenzione
della messa. È altrettanto vero che tale impostazione è eminentemente clericocentrica:
ogni fedele, infatti, può pregare per le proprie intenzioni, che presieda o
meno l’assemblea, in una liturgia eucaristica o in altra azione rituale.
Il retaggio storico dell’applicazione secondo il
modello soddisfatorio
È da notare, purtroppo, che il
concetto di “applicazione”, ovvero l’intenzione con cui si presiede (o si
celebra) l’eucaristica (e qualsiasi altra preghiera -liturgica-), è pensata
nell’alveo del clericocentrismo e della soddisfazione sacrificale.
Inoltre è pensata nell’alveo dell’applicazione della Messa secondo la logica del
“placare Dio”. La fonte immediata del can. 901, infatti, è il Cap. II
della Sez. XXII del Concilio di Trento in cui si afferma:
«Et quoniam in divino hoc sacrificio quod in Missa
peragitur idem ille Christus continetur et incruente immolatur qui in ara
crucis semel se ipsum cruente obtulit: docet sancta Synodus sacrificium istud
vere propitiatorium esse per ipsum fieri ut si cum vero corde et recta fide cum
metu ac reverentia contriti ac pœnitentes ad Deum accedamus misericordiam
consequamur et gratiam inveniamus in auxilio opportuno.
Huius quippe oblatione placatus Dominus
gratiam et donum pœnitentiæ concedens crimina et peccata etiam ingentia
dimittit.
Una enim eadem que est hostia idem nunc offerens
sacerdotum ministerio qui se ipsum tunc in cruce obtulit sola ratione diversa.
Cuius quidem oblationis (cruentæ inquam) fructus per hanc incruentam
uberrime percipiuntur: tantum abest ut illi per hanc quovis modo derogetur.
Quare non solum pro fidelium vivorum peccatis
pœnis satisfactionibus et aliis necessitatibus sed et pro defunctis in Christo
nondum ad plenum purgatis rite iuxta apostolorum traditionem offertur».
Che tradotto sarebbe:
«E poiché in
questo divino sacrificio, che si compie nella messa, è contenuto e immolato in
modo incruento lo stesso Cristo, che si immolò una sola volta cruentemente
sull’altare della croce, il santo Sinodo insegna che questo sacrificio è
veramente propiziatorio, e che per mezzo di esso – se di vero cuore e con retta
fede, con timore e riverenza ci avviciniamo a Dio contriti e pentiti – noi
possiamo ottenere misericordia e trovare grazia in un aiuto propizio.
Placato,
infatti, da questa offerta, il Signore, concedendo la grazia e il dono della
penitenza, perdona i peccati e le colpe anche gravi. Si tratta, infatti,
della stessa, identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per mezzo dei
sacerdoti, egli che un giorno si offrì sulla croce. Diverso è solo il modo di
offrirsi. E i frutti di quella oblazione (di quella cruenta) vengono percepiti
abbondantemente per mezzo di questa, incruenta, tanto si è lontani dal pericolo
che con questa si deroghi a quella.
È per questo
motivo che giustamente, secondo la tradizione degli Apostoli, essa viene offerta
non solo per i peccati, le pene, le soddisfazioni ed altre necessità dei fedeli
viventi, ma anche per i fedeli defunti in Cristo, non ancora del tutto
purificati».
Nulla si dice rispetto alla ripetizione del sacrificio come se fosse una necessità per il bene dei fedeli in modo da far apparire la celebrazione eucaristica come un sacrificio da fare per placare (l'ira di?) Dio. Quello che è tortuoso, dunque, è proprio una logica
della celebrazione eucaristica (o di qualsiasi altra liturgia) usata al fine di “placare” la divinità oltre all'unico evento paquale, e che non esiste neanche nella tradizione tridentina. Tale logica è apparentemente contenuta nel secondo capitolo della Sezione XXII del Concilio di Trento del 15 settembre
1562 appena riportato ma è il frutto di una teologia della redenzione tutta
moderna.
Per rimanere nel contesto del CIC (e della tradizione) è evidente che il concetto di sacrificio dovrebbe essere ripreso anche alla
luce del Concilio Vaticano II e secondo tradizione. Al contrario la fonte immediata
del can. 901 (CIC 83), infatti, è la stessa del can. 809 del Codice del 1917: eppure
di mezzo c’è un altro Concilio che chiarisce ulteriormente la genuina dottrina. Non solo: c’è una tradizione spogliata da
lunghi anni di clericalismo liturgico e di teologia soddisfattoria,
come ha già sottolineato la Commissione teologica internazionale[1].
Va sottolineato comunque che nell’ultimo
Concilio il concetto di sacrificio è relativo a quello di Cristo e
a quello che i fedeli fanno di sé in Cristo. Così il n. 12 della SC:
«Per questo nel sacrificio della messa preghiamo il
Signore che, “accettando l'offerta del sacrificio spirituale”, faccia “di noi
stessi un’offerta eterna”».
L’auspicio, secondo la tradizione, è che il sacrificio eucaristico
faccia di tutti, vivi e morti, un’offerta eterna, ovvero partecipi dell’unico
sacrificio di Cristo.
E va notato anche che nella Costituzione
sulla liturgia manca del tutto il concetto di “applicazione” e/o di “intenzione”.
Tutto questo rende ancora più
necessarie, circa il concetto di “applicazione della messa”, riflessioni di nuova
luce e nuovo linguaggio, pur nel solco della tradizione cattolica.
Evidentemente una “offerta”,
anche pecuniaria, può essere concepita (per antica consuetudine e dal punto di
vista psicologico-affettivo) come un modo che il fedele ha di sentirsi più
attore consapevole; tuttavia, dal punto di vista teologico, sembra molto più
sobrio il dettato del CIC che vede nell’offerta un modo consapevole di contribuire
al bene della Chiesa e al sostentamento dei ministri e delle opere (cfr. can.
946): non c’è alcuna offerta da dare perché possa essere applicata intenzione soddisfattoria
per il defunto, questo è più che chiaro anche semplicemente leggendo le fonti tridentine!
Nella tradizione genuina immutata
Il n. 2 dell’Ordinamento generale
della Messa, così recita:
«La natura sacrificale
della Messa, solennemente affermata dal Concilio di Trento, in armonia con
tutta la tradizione della Chiesa [Nota: Concilio di Trento, Sez. XXII], è stata
riaffermata dal Concilio Vaticano II, che ha pronunciato, a proposito della
Messa, queste significative parole: “Il nostro Salvatore nell’ultima Cena...
istituì il sacrificio eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue, al fine di
perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il sacrificio della croce, e di
affidare così alla sua diletta sposa, la Chiesa, il memoriale della sua morte e
risurrezione” [Nota: SC, 47]».
Tale numero riassume la tradizione
interrotta e incorrotta circa la dottrina sul sacrificio eucaristico; non si fa però nessun
accenno alla necessità di un tale sacrifico al fine di “placare Dio”.
Possiamo affermare che quest’ultima
considerazione è più relativa alla interpretazione espiatoria ripetuta del
contesto teologico pre- e post-tridentino, piuttosto che della natura stessa della dottrina.
Tant’è che il numero continua citando un detto del Sacramentario leoniano:
«ogni volta che celebriamo il memoriale di questo
sacrificio, si compie l’opera della nostra redenzione».
Non si vuole, infatti, indicare
che non ci sia nel sacrificio di Cristo un’opera di redenzione, ma che quest’opera
è avvenuta una volta per tutte nella storia e che a quell’evento si comunica
attraverso la celebrazione eucaristica. Un evento di totale autodonazione trinitaria
piuttosto che di “pagamento di riscatto”. Tutto ciò fa di Gesù Cristo l’unico ed
eterno mediatore che ha donato, una volta per tutte, se stesso in riscatto per “molti”, cioè, “per
tutti”[2].
Il concetto di “riscatto” poi è da intendere rettamente (e magari potrebbe
essere oggetto di altro post). Qui basterà dire che non è certo Dio-Padre ad
avere bisogno del “riscatto”.
Pregare per i defunti: alcuni spunti di riflessione dal CIC
Ritornando al contesto immediato,
si può dunque pensare che il Concilio Vaticano II, più che fare problema in sé
fa problema per il cambio di paradigma che propone in tanti aspetti della vita
ecclesiale e lo ritornando alla tradizione genuina. Ma le consuetudini e le mentalità sono dure a cambiare e soprattutto sono dure a cambiare le prassi convenzionali: ma è il cambio di paradigma (teologico non solo pratico) a non
essere compreso.
È vero anche che la stessa mens circa le "indulgenze" del can. 901 risiede nel can. 994 (“Ogni fedele può lucrare per se
stesso o applicare ai defunti a modo di suffragio indulgenze sia parziali sia
plenarie”). Ma entrambi i canoni non dicono niente rispetto alla offerta e all’applicazione come conseguenza immediata della e nella Messa. Insomma, al di là della dottrina delle indulgenze ciò che da sempre è chiaro (anche da Trento in poi) è che il perdono non va pagato né c'è relazione tra applicazione (pagata) e suffragio (pregato).
In realtà però il CIC ci offre un’altra
luce.
Il canone 1176 §2 infatti detta un’altra decisiva angolatura. Si afferma che le esequie ecclesiastiche
hanno tre scopi: impetrare l’aiuto spirituale per i defunti,
onorare i corpi, donare il conforto della speranza
ai vivi. Così il canone intero:
«Can.
1176 - § 1. Ai fedeli defunti si devono dare le esequie ecclesiastiche a norma
del diritto.
§ 2. Le esequie ecclesiastiche, con le quali
la Chiesa impetra l’aiuto spirituale per i defunti e ne onora i corpi, e
insieme arreca ai vivi il conforto della speranza, devono essere celebrate a
norma delle leggi liturgiche».
Credo che in questi tre fini o scopi delle esequie si
racchiuda la natura intrinseca di una celebrazione per i defunti.
Tale relazione è intrinseca a partire da un dato specifico: il corpo
morto. In realtà le esequie sono aiuto spirituale per i defunti e per i
vivi ma per il fatto che i defunti sono “presenti” nel corpo (morto); allo
stesso tempo, con la stessa azione rituale, si dona, nella fede del Cristo
morto e risorto, speranza e conforto ai vivi.
Si badi che le esequie si fanno
in relazione a un corpo e che da questo corpo dipende sia la preghiera di
intercessione per i defunti, in un’azione rituale ben precisa, sia la preghiera
di speranza e di consolazione per i vivi: e tutto nella stessa liturgia.
Così le attestazioni più antiche:
la celebrazione eucaristica non era semplicemente “per i defunti” ma era “con i
defunti”, nel senso che si pregava con la salma[3]
o presso la salma, come nel caso di Giovanni apostolo che sembra aver pregato
tre giorni dopo la morte di Drusiana sulla sua tomba (ut ubi frangeret panem…).
È chiaro però che le formule
liturgiche sono quelle della “raccomandazione a Dio” anche in
forma di gruppi (come da tradizione liturgica gallicana). Ma la Chiesa non ha
mai accolto lo spirito delle feste romane per il culto dei morti (Parentalia
e Lemuria). Solo nel tardo VII secolo appare qualcosa del genere e, come
si è detto, nel senso di “raccomandazione” delle anime a Dio non di “festa dei
morti” per i quali porre azioni e aiutarli a passare nella vita dell'oltretomba.
E non deve neanche meravigliare
che Girolamo, narrando del corpo di una donna sottoposta (forse ingiustamente)
alla pena capitale, ricorda che era particolare ufficio di alcuni chierici raccoglierne
le spoglie e preparare il corpo alla toeletta funebre, con queste
parole:
«clerici, quibus id officis est, linteo
cadaver obvolverunt»[4].
Il corpo è centrale rispetto all'azione rituale.
E tanto è forte l’apprensione e l’attaccamento al corpo del
defunto che si inizieranno a redigere forme di testamento per assicurarsi di essere
seppelliti presso i corpi dei (più) santi, magari progettando e finanziando in
vita la propria tomba.
Questa dinamica porterà molti
autori della Chiesa (tra cui Agostino, seguendo tra l’altro l’insegnamento
della madre) a ricordare il bisogno di preoccuparsi più delle preghiere di
intercessione che del luogo dove essere sepolto. Nel fare questo, lo spostamento
lento e inesorabile dalla “commendatio animæ”
alla “applicatio missæ”
sarà inevitabile quando a Cluny l’abate Odilone (verosimilmente nel 1030) decretò
per i suoi monasteri che subito dopo la festa di tutti i Santi fossero celebrate,
in forma sia privata che pubblica, con canti ed offerte (cum psalmis et eleemosynis)
messe di suffragio per tutti i defunti (pro requie omnium fidelium).
C’è da dire però che la dottrina,
per le quali le anime avessero bisogno della preghiera dei vivi, era largamente
presente tra i culti e le tradizioni religiose pagane. Ce lo indica in modo particolareggiato
lo storico Righetti[5] citando
tra gli altri Platone. Ed è lo stesso storico a ripercorrere la presenza della
preghiera di suffragio a partire dalle testimonianze bibliche e liturgiche del
cristianesimo antico. Tuttavia, e qui c’è il salto, l’inclinazione
lenta ma inesorabile di preoccuparsi più l’acquisizione di “meriti” per i
defunti, piuttosto che raccomandarne l’anima, sancisce il già citato passaggio dalla
“commendatio animæ” alla “applicatio missæ”. Questo
passaggio, tra l’altro, dice anche l’attenzione alla celebrazione eucaristica
più come ulteriore sacrificio da cui ricavare la forza sufficiente per
placare lo stesso “Dio” che il luogo della celebrazione dell’unico evento
pasquale in cui ricapitolare la sorte di tutti, vivi e defunti.
A mo’ di rimando a conclusioni
Per quanto riguarda le “intenzioni” e la preghiera per i defunti rimane il fatto che il Codice mette insieme le due esigenze tradizionali: da una parte l’applicazione (per i vivi e per i morti e per ogni necessità) e dall’altra la raccomandazione (per i defunti). Ed è evidente nelle esequie il rimando ad una celebrazione di intercessione in cui il “corpo” gioca un ruolo fondamentale. Da questo dato si potrebbe ulteriormente approfondire la questione.
Certo è che per ora queste
indicazioni rispetto alle esequie non sono da poco e appaiono come un punto di
riferimento luminoso che è offerto dallo stesso CIC. Appare come se le esequie corrispondessero
alla mente della preghiera di intercessione per i vivi e per i defunti mentre
il concetto di applicazione sia più immediatamente connesso all’intenzione di
preghiera e, solo a latere, con quello di guadagnare indulgenze relativo alle fonti del Concilio di Trento già citate. L’applicazione
delle intenzioni (ovvero, quella che potremmo chiamare l’attualità della
preghiera dei figli nel Figlio) alla luce dei Prænotanda dei riti
e della Costituzione sulla liturgia è una possibilità di ogni fedele e per ogni
liturgia (e preghiera). Ciò non toglie che, per la stessa normativa, ogni
fedele può responsabilmente sovvenire alle necessità dei ministri e della
Chiesa anche con offerte: ma è esclusa, categoricamente, ogni relazione tra
offerta e intenzione anche e soprattutto in relazione al dettato del can.
945 §2. L'offerta responsabile come condivisione di beni e supporto coi beni al sacerdozio ministeriale non sostituisce la partecipazione attiva nella preghiera e con la preghiera del sacerdozio comune.
In quest’ottica è chiaro che la riflessione va condotta a partire dai contesti e dagli elementi teologici e antropologici diversi rispetto al sacrificio della messa, che con il Concilio Vaticano II è stato ripensato e riproposto, come da tradizione, quale momento apice della preghiera e dell’azione di ogni cristiano, vivo e defunto.
Altra considerazione
andrebbe fatta in relazione al concetto di “applicazione” che andrebbe ripreso a partire dalla storia dei corpi, i quali, nel caso dei
defunti, già vivono la condizione della loro “totale donazione” nel ritorno alla
terra, alla polvere, alla vita “consumata” in Dio. Una condizione che, da
figli nel Figlio, può essere solo supportata, evocata, accompagnata per
i meriti dell’unica mediazione avvenuta nella morte e resurrezione del Cristo unico
ed eterno redentore.
[1] Cfr. Commissione
Teologica Internazionale, Alcune questioni sulla
teologia della redenzione (1995): [omissis]
[2] Cfr. Giovanni Paolo II, Udienza Generale di mercoledì 4 febbraio 1998 [omissi]
[3] Cfr. Milne,
A New Fragment of the Apology of Aristides, [omissis].
[4] Gerolamus, Epistola LIX, Ad Innocentium.
[5] M. Righetti, Storia liturgica, [omissis].
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