La comunità tra parrocchia/istituto e istituzione/parroco – II parte



I binomi rigidi eucaristia/potestà e parrocchia/parroco ritenuti reciprocamente “immediati” fomentano la paura di delegare la potestà di governo. Tale "impedimento" rischia (ex divina institutione) di creare più problemi di quanto ne vorrebbe risolvere. Nè sarà sufficiente mettere insieme i "tria munera" con i "cinque ambiti pastorali" per offrire soluzioni fruttuose. Bisogna intervenire giuridicamente: un mancato intervento forse per paura o per momentanea poca chiarezza. 

Le miopie iniziano a farsi vedere. 



La comunità tra parrocchia/istituto e istituzione/parroco – II parte

Umberto R. Del Giudice

Rimandando a quanto detto nella prima parte di questo lungo post, l’istituto/Parrocchia è stato di fatto come “bloccato” nei confini (e nei limiti) dell’impianto giuridico relativo agli obblighi/doveri (e alla potestà) del chierico “parroco”. Questo nonostante la Parrocchia sia stata, quale realtà viva della Chiesa, oggetto di riflessioni accorate sia dal punto di vista pastorale che teologico.

Due spinte, quella pastorale da una parte e quella giuridica dall’altra, che si sono contrapposte fino ad annullarsi nella funzione/autorità (giuridica e dottrinale ma anche socio-fenomenologica) della figura e del ruolo del “Parroco”.

È indubbio che le “buone intenzioni” della recente Istruzione della Congregazione del Clero vorrebbero rilanciare le potenzialità e l’identità della Parrocchia ma è altrettanto evidente che quelle buone intenzioni si incagliano tra gli scogli della canonistica-non-flessibile-di-Curia acuendo la difficile relazione tra “proposizioni teologiche” e “disposizioni normative” più volte emersa e che produce “Una teologia senza gambe e un diritto senza testa” (così Andrea Grillo in un recente post).

In questo contesto, riprendendo e proseguendo quanto scritto nella prima parte, provo ora a riflettere sull’impianto giuridico attuale per evidenziarne i confini dettati da una cerca dottrina (teologica non solo canonistica) che si svelano come “blocco normativo/dottrinale” (ed epistemologico) rispetto alle pur eccellenti premesse teologico-pastorali sulla Parrocchia.

 

 

Cosa si dice e si diceva della Parrocchia: settant’anni di ottime parole

L’attuale Istruzione racconta e tratteggia l’icona di una Parrocchia come comunità viva[i]. Una prospettiva che ripercorre e rilancia le riflessioni e i suggerimenti dei pontefici degli ultimi cinquant’anni.

In particolare, vorrei riprendere alcune espressioni di Paolo VI che, lontano da noi, dal Codice attuale e dalla drastica diminuzione del numero di presbiteri, ma col vigore del Concilio, disegnava la Parrocchia con tratti forti.

Tra le varie affermazioni ne cito tre che mi sembrano molto interessanti.

Papa Montini non mancava di affermare che la Parrocchia è una comunità viva e necessaria per la vita spirituale di tutti i membri pur diversi tra loro[ii]. Non mancava il rimando al Parroco. Ma la stretta relazione, a ben vedere, più tra Parrocchia e Parroco è con l’eucaristia[iii]. Non solo: egli afferma, pur nell’ambito di una rilettura evidentemente datata dal punto di vista pastorale e teologico, che il ministero dei chierici/parroci è un servizio alla comunità parrocchiale che rimane una realtà superlativa[iv].

Paolo VI, come già aveva avuto modo di dire, riafferma a pochi anni di distanza che la Parrocchia è una realtà eminente dell’azione e della testimonianza della Chiesa. E questo lo ha affermato ad un ritiro del clero romano!

 

Pochi tratti ma che fanno intravedere una forza pastorale e pragmatica per certi versi molto più decisa di quella attuale.

Non cito gli interventi importati dei pontefici successivi perché vorrei solo rimandare al contesto di riflessioni pastorali degli anni ’60/’70.

E mi chiedo: è possibile che riflessioni così vive, forti e aperte dal punto di vista della prassi pastorale, come quelle appena tratteggiate che vanno dal postconcilio all’ultima Istruzione, non trovino dopo circa sessant’anni, ulteriori sviluppi normativi?

L’ipotesi di un blocco normativo, voluto o non voluto, è più che realistica.

Da cosa deriva il “blocco” e cosa si può fare? Questa la domanda principale di questa seconda parte di un post lungo (me ne scuso) ma che diventa fondamentale per chiarirmi le idee.

 

De parœcia et parocho: de iure condito (in brevis)

Sarà opportuno delineare in modo schematico alcuni caratteri di quanto oggi si presenta come impianto giuridico della Parrocchia e del Parroco.

 

La Parrocchia nel CIC (in breve)

La parrocchia è «una determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente nell’ambito di una Chiesa particolare, e la cui cura pastorale è affidata, sotto l’autorità del Vescovo diocesano, ad un parroco quale suo proprio pastore» (can. 515, §1)

 

I tratti che derivano da questo canone (come anche dal successivo)[v] sono:

-       comunità di fedeli;

-       costituzione;

-       affidamento cura pastorale al…

-       parroco, come proprio pastore

-       da parte del Vescovo (cfr. LG, 18).

 

Comunità e proprio pastore: un binomio non inscindibile. La comunità è costituita con un atto amministrativo differente da quello che è l’altro atto singolare per la nomina del Parroco. Due differenti atti amministrativi; due realtà. Dal punto di vista strettamente giuridico il chierico/parroco non appare contrapposto alla comunità anche se non sembra farne parte. Il Parroco, infatti, non è costituito Pastore a causa del suo far parte della comunità, ma perché insignito dell’ordine sacro (ex can. 521 - §1) e stretto collaboratore del Vescovo, primo Pastore della chiesa particolare (cfr. can. 369). La relazione dunque che c’è tra Comunità e Pastore è estrinseca, non consequenziale e si può ritenere “gerarchica” solo in quanto è il Vescovo che ne determina la cura pastorale. La vera relazione gerarchica, dunque, è tra Vescovo e Comunità (ex can. 515 - §1): è l’Ordinario del luogo, infatti, che costituisce/erige l’Istituto/Parrocchia e provvede alla sua cura pastorale.

 

Il Parroco nel CIC (in breve)

Senza indugiare molto, vale la pena ricordare cosa sia “pastore” nell’ambito del CIC. Esso è tale per una finalità; ovvero: «per compiere al servizio della comunità le funzioni di insegnare, santificare e governare, anche con la collaborazione di altri presbiteri o diaconi e con l’apporto dei fedeli laici» (can. 519).

Questi gli elementi:

-       compiere ciò che è relativo ai tria munera;

-       anche in collaborazione di altri chierici o laici.

 

Tra gli altri obblighi, il Pastore della Parrocchia deve:

-       (ex can. 529 - § 1) conoscere i fedeli affidati alle sue cure;

-       assistere gli ammalati;

-       essere vicino ai poveri e agli ammalati… a tutti coloro che attraversano particolari difficoltà;

-       sostenere sposi e genitori nell’adempimento dei loro doveri.

-       (ex can. 532) Amministrare i beni della parrocchia.

-       (ex can. 771 - § 1) Essere sollecito nell’annunciare la Parola di Dio.

-       (ex can. 773) Curare la catechesi del popolo cristiano.

-       (ex can. 794 §2) Disporre ogni cosa, perché tutti i fedeli possano fruire dell’educazione cattolica.

-       (ex can. 823 - § 1) Vigilare che non si arrechi danno alla fede e ai costumi dei fedeli.

-       (ex can. 843 - § 2) Curare e preparare quanti lo chiedono a ricevere i sacramenti. Questo dovere è condiviso con gli altri fedeli.

-       (ex cann. 898; 901; 534) Illustrare la dottrina del sacramento dell’eucaristia e applicare le intenzioni in modo particolare anche per la Comunità.

 

In conclusione, l’invito rivolto al lettore è quello di ripercorrere almeno questi brevi appunti e di suggerire, tenendo conto questi canoni, possibilità di interpretazione o di cambiamento rispetto all’impianto giuridico attuale.

Una domanda potrebbe essere: alcuni di questi “doveri” sarebbe possibile delegarli a non-sacerdoti? Di seguito alcune proposte.

 

De parœcia et parocho: de minimo iure condendo

Piccola premessa e breve riflessione.

Come accennato, la cura del Parroco è condotta nel pieno esercizio di quelli che, secondo la dottrina conciliare, sono considerati i tria munera:

-       celebrare e presiedere (munus sanctificandi, cfr. LG 26);

-       annunciare (munus docendi, cfr. LG 25)[vi];

-       governare (munus regendi, cfr. LG 27).

 

Tutti sanno bene che le tre funzioni (santificare, insegnare e governare) sono relative all’essere sacerdote, re e profeta di ciascun battezzato (in persona Christi). Ogni battezzato è incorporato a Cristo e da lui mutua la triplice natura di sacerdote, re e profeta (cfr. LG, 31)[vii]. La differenza tra il battezzato e il ministro ordinato è che quest’ultimo esercita i tria munera nel pieno della abilitazione alla potestà di governo la quale, tecnicamente, è altro dal solo munus regendi e distinto dai tria munera in genere.

 

Qui il passaggio è delicato quanto chiaro (in dottrina): i tria munera sono doni del Cristo (che ne ha la pienezza) mentre la potestas regiminis (potestà di governo) è un dono di “Cristo capo” elargito ai sacerdoti (presbiteri e ai vescovi) e non ai diaconi (cfr. can. 1009 §3)[viii] e non ai laici[ix].

Ne deriva che solo un sacerdote (vescovo o presbitero) può essere a capo di una comunità in quanto agisce in persona Christi capitis.

Ora si hanno tre possibilità (come accennavo nella prima parte del post):

1.       lasciare l’impianto giuridico attuale e articolarne le possibilità;

2.a.    cambiare l’impianto giuridico in relazione al ruolo del parroco;

2.b.    cambiare la dottrina circa l’ordine sacro e la potestà di governo.

 

Proviamo ad articolare le tre possibilità:

1.    lasciare l’impianto giuridico attuale e articolarne le possibilità: ci sarebbero varie possibilità di far “cooperare i laici” alla potestà di governo (ex can. 129 §2). Già il verbo adoperato nella redazione del can. 129 (cooperare / cooperari)[x] vuol dire che vi è una possibilità concreta e cioè che chi ne ha autorità (in questo caso il vescovo non il parroco a mio modesto avviso e per l’evidenza della situazione) può delegare un laico per alcuni atti di potestà di governo. Lascio immaginare le articolazioni che ne potrebbero derivare. Faccio un azzardo che rimane all’interno dell’attuale impianto giuridico: il Vescovo, primo e unico pastore della Chiesa particolare, potrebbe delegare con la propria potestà (che è anche ordinaria e immediata ex can. 381) un non-sacerdote il quale reggerebbe una parrocchia non per propria potestà ma per potestà delegata anche se non insignito dell’ordine sacro. Nominalmente il Vescovo reggerebbe la parrocchia delegando alcuni atti. In realtà questa possibilità non verrebbe contro neanche al disposto del can. 521 - §1 poiché il laico in questione non sarebbe “parroco” ma reggerebbe la chiesa con potestà delegata e, al massimo, sarebbe un “delegato parrocchiale”: e sembra sia questa la possibilità, negata di fatto dalla Istruzione, che si attendeva. Sempre nell’ambito della potestà di governo, bisogna ricordare che essa è distinta in “legislativa”, “esecutiva” e “amministrativa”. Sarebbe così sacrilego delegare un non-sacerdote per (almeno) la rappresentanza legale e amministrativa della parrocchia (ex can. 532)[xi]? Non si vede come. Anzi: un rappresentante non-presbitero e più legato alle decisioni collegiali potrebbe apparire più conforme alla mens canonica attuale sulla gestione e l’amministrazione dei beni di persone giuridiche. Nonostante ciò l’Istruzione vuole che i doveri e i diritti del parroco siano comunque in capo ad un presbitero (“Moderatore della cura pastorale”, n. 88) che assuma l’intera rappresentanza e amministrazione dell’Istituto/Parrocchia: insomma, senza un presbitero “Moderatore” (con lettera maiuscola!) neanche il Vescovo può reggere una parrocchia e delegare atti? In realtà appare la volontà di legare la comunità non alla sua fonte (eucaristia e liturgia) ma alla potestà di chi può presiedere la celebrazione eucaristica anche per questioni legali e amministrative. Che la comunità sia viva nell’eucaristia (e nella liturgia) non significa che essa sia tale solo per la potestà di governo di chi può presiedere l’eucaristia (potestà di governo e potestà d’ordine possono non coincidere). Ma qui è evidente che una dottrina legata alla visione cosificata dell’istituzione del settimo sacramento non ammetterà mai che l’eucaristia è fondamentale per una comunità parrocchiale ma non è identificativa per la potestà di governo (o per la rappresentanza/amministrazione) di chi può porre alcuni atti, in alcuni casi, se delegati dal Vescovo pur non essendo presbitero (realtà già sussistente: si pensi al caso dei giudici laici). In altre parole, se non c’è presbitero perché il Moderatore? Se è vero che non si può delegare la presidenza dell’eucaristia che rimane intrinseca ad almeno due gradi del settimo sacramento (potestà di ordine, come vuole l’attuale dottrina), è vero che si possono delegare atti di potestà di governo per reggere una Parrocchia. Bisogna pure ricordare che nell’attuale dottrina canonistica il parroco rappresenta e amministra perché può decidere (ne ha facoltà e volontà autonoma). Ma in questa prospettiva ci si chiede dove sono relegati le funzioni dei Consigli parrocchiali e di affari economici. E questi non potrebbero essere rappresentati da non-presbiteri che, col consenso vincolante degli organi collegiali, attuino volontà in prima persona per tutelare i terzi? Perché i non-presbiteri (debitamente delegati, stante l’attuale dottrina) non potrebbero essere “capaci” e “abili”? In realtà gli atti di un non-presbitero vincolati al mandato del Vescovo e al consenso dei Consigli parrocchiali, potrebbero aiutare a far crescere l’identità della Parrocchia in quanto comunità che prende decisioni e si impegna al di là degli amministratori che possono cambiare. Finché i binomi rigidi eucaristia/potestà e parrocchia/parroco sono costituiti da elementi ritenuti reciprocamente “immediati”, la paura di delegare la potestà di governo sarà considerata un impedimento di origine divina che, almeno attualmente, non è per nulla evidente e rischia di fatto (ex divina institutione) di creare più problemi di quanto ne vorrebbe risolvere. Le miopie iniziano a farsi vedere. Intanto, già solo con un’interpretazione dell’attuale impianto giuridico si potrebbe fare molto più di quanto dettato nell’Istruzione. Dispiace che il vero motivo di una tale articolazione sarebbe e resterebbe solo la mancanza di presbiteri (ob sacerdotum penuriam): oltre questo unico motivo, al contrario, la partecipazione/collaborazione (attiva) dei laici alla cura pastorale anche attraverso forme di deleghe concrete potrebbe essere, e di fatto è, una ricchezza non sfruttata, rimanendo nel frattempo solo una pezza di rattoppo[xii]. Insomma, «se la partecipazione è nell’ambito della cura pastorale questa non può non prevedere anche una partecipazione nel ruolo di guida»[xiii] e, quindi, una cooperazione alla potestà di governo, con buona pace delle difficoltà linguistiche e nominalistiche con cui chiamare il fedele non-sacerdote che potrebbe essere soggetto di deleghe o di mandato.

 

2.a.    cambiare l’impianto giuridico in relazione al ruolo del Parroco: questa possibilità sarebbe una delle più gradite. È indubbio che, seguendo il ragionamento di cui al punto 1, sarebbe auspicabile che, per competenze e formazione, anche un non-sacerdote possa essere nominato Parroco e questo senza nulla togliere alla dottrina ma solo permettendo ad un non-sacerdote (diacono, religioso, laico…) di essere nominato almeno “guida pastorale”. Se qualcuno avanzasse la perplessità che in questo modo si intaccherebbe la dottrina, si potrebbe rispondere che la Parrocchia è un istituto di diritto ecclesiastico per tale motivo elencare i requisiti necessari per la guida della parrocchia è una questione di diritto ecclesiastico e non toglierebbe niente alla dottrina circa la relazione tra settimo sacramento e potestà, tra potestà di ordine e potestà di governo. Se il problema risultasse essere la dottrina più che il diritto da riformare, quelle del Parroco non-sacerdote, ovvero della “guida pastorale”, potrebbe essere un insieme di potestà delegate. Fermo restando la non possibilità della presidenza dell’eucaristia, del sacramento della penitenza e dell’unzione degli infermi, come attualmente vuole la dottrina.

 

2.b.    cambiare la dottrina circa l’ordine sacro e le potestà su questo ci sentiremo tra un po’ di tempo…

 

Conclusioni

Difficile concludere ma doveroso.

Basterà solo evidenziare alcuni ultimi elementi.

La Parrocchia così come si presenta oggi è un istituto complesso che raccoglie in sé membri di diversa sensibilità e che richiede azioni distinte e diverse.

Dal punto di vista giuridico (per riprendere la seconda parte dell’Istruzione) la Parrocchia rinvia ad alcuni elementi minimi ed essenziali:

-       una viva azione liturgica (in particolare cann. 834-1253);

-       una formazione costante nella Parola di Dio (in particolare cann. 747-833);

-       una guida capace e abile di atti di governo (in particolare cann. 495-502; 1273-1739);

-       un rappresentante legale (almeno per ogni atto; cfr. in particolare cann. 515-572; 1740-1752);

-       un amministratore (in particolare cann. 1245-1310).

 

È possibile che tutti gli atti e le azioni evocati dall’impianto giuridico attuale possano essere attivati davvero solo se vi è la presenza/moderazione, pur solo nominale, di un presbitero (sacerdote)?

A chi scrive sembra che, al di là del percorso fin qui proposto e che rimanda ad ulteriori studi e ad altro lavoro intenso (teologico e canonistico), molti passi si possano fare anche senza cambiare il Codice ed altri si potrebbero fare con la volontà di chiarire la dottrina e riformulare alcuni canoni.

La delusione data dall’Istruzione deriva anche e soprattutto dal non aver sfruttato l’impianto giuridico attuale.

Tuttavia è innegabile che si riaffaccia il dilemma (falso) della distinzione tra potestà di ordine e potestà di governo: la prima legata al settimo sacramento, la seconda aperta alla cooperazione per mandato speciale anche da parte dei non-sacerdoti. Ma se dal punto di vista dell’impianto giuridico sono stati fatti notevoli progressi, dal punto di vista delle possibilità concesse, l’Istruzione segna il passo.

Nulla di nuovo sotto il manto di madre Chiesa.

Delude, infatti, che la parte normativa dell’Istruzione non abbia articolato ulteriori possibilità giuridiche per aiutare e sostenere le comunità parrocchiali a cui, tuttavia, si chiede una sollecita conversione missionaria, ma senza identità.

Rimane un’altra questione: il Popolo di Dio (tutto) ha bisogno di formarsi concretamente in queste possibilità di vera cooperazione e di comunione. Finché non si partirà da una formazione capillare (dei chierici e dei non-chierici…) ogni comunità attenderà il Parroco che vuole e ogni Parroco forgerà la Comunità che immagina.

Lo sforzo dal punto di vista pastorale è grande. Ma bisogna intervenire con più decisione giuridicamente. Non sarà sufficiente, infatti, accostare e relazionare i tria munera ai cinque ambiti dell’azione pastorale («desiderare, concepire, mettere al mondo, prendersi cura, lasciar andare»)[xiv] per risolvere ciò che la canonistica e la dottrina sono chiamate a verificare e proporre per l’oggi della Chiesa.

Questo il punto.

Il post lungo rinvia alla pesantezza canonistica: ma forse ora sono pronto ad iniziare a ragionare e a lavorare.

 

 



[i] Ne riprendo alcuni punti fondamentali. La Parrocchia è “una casa in mezzo alle case” (n. 7), “comunità viva di credenti” (n. 9), “chiamata a cogliere le istanze del tempo per adeguare il proprio servizio alle esigenze dei fedeli e dei mutamenti storici” (n. 11), “contesto umano dove si attua l’opera evangelizzatrice della Chiesa, si celebrano i sacramenti e si vive la carità, in un dinamismo missionario” (n. 19), “‘luogo’ che favorisce lo stare insieme e la crescita di relazioni personali durevoli, che consentano a ciascuno di percepire il senso di appartenenza e dell’essere ben voluto” (n. 25). Ma soprattutto la parrocchia è “comunità convocata dallo Spirito Santo per annunciare la Parola di Dio e far rinascere al fonte battesimale nuovi figli” (n. 29) e, giusto dieci numeri dopo, in questa prospettiva si asserisce che essa è “abilitata a proporre forme di ministerialità, di annuncio della fede e di testimonianza della carità” (n. 39).

[ii] Egli affermava: «la Parrocchia è un ente ecclesiale sempre vivo e indispensabile. Essa è la prima comunità organica e autorizzata nella Chiesa diocesana, e perciò in comunione, come dice il Concilio, con la Chiesa universale (cfr. CD, 30); è la nostra prima e normale famiglia spirituale, risultante non tanto dalla omogeneità dei suoi membri, i quali sono socialmente ben diversi fra loro, ma dalla virtù generatrice d’uno specifico ministero pastorale e dalla efficacia coesiva di una stessa fede e d’una stessa carità. La Parrocchia è un’istituzione di altissimo valore morale e sociale, se si pensa ch’essa è l’organo primario e responsabile d’una provvida e necessaria finalità, che riguarda tutti e ciascuno: la cura d’anime, la quale suppone un sacerdote qualificato, il Parroco, che si dedica totalmente alla comunità affidatagli, pronto sempre, come “buon Pastore” a preferire l’altrui salvezza, se occorre, alla propria vita stessa. È la scuola della Parola di Dio, è la mensa del Pane eucaristico, è la casa dell’amore fraterno, è il tempio della preghiera comune». Paolo VI, Angelus, domenica 7 settembre 1969 [http://www.vatican.va/content/paul-vi/it/angelus/1969/documents/hf_p-vi_ang_19690907.html].

[iii] La celebrazione eucaristica non era vista come privata azione del chierico ma come identità della comunità stessa. Papa Montini predicava: «Con il SS.mo Sacramento c’è anche il parroco; e chi è il parroco? Il rappresentante della Chiesa. Adunque la parrocchia è la presenza della Chiesa viva ed operante in mezzo al popolo fedele. È - per definirla in maniera più completa - la presenza di Cristo nella pienezza della sua funzione salvatrice». Paolo VI, Discorso alla Parrocchia Gran Madre di Dio, domenica 8 marzo 1964 [http://www.vatican.va/content/paul-vi/it/speeches/1964/documents/hf_p-vi_spe_19640308_gran-madre.html]. Si badi che qui il rimando alla presenza di Cristo (argomento caro a papa Montini) è alla Parrocchia!

[iv] «Bisogna che noi comprendiamo, ancora una volta, quale formula superlativa di vita comunitaria, modernissima, polivalente, psico-sociologica, facile ed eroica allo stesso tempo, sia tuttora la Parrocchia, alla quale è rivolto il vostro ministero sacerdotale». Paolo VI, Incontro di Quaresima con il Clero romano, lunedì 15 marzo 1976 [http://www.vatican.va/content/paul-vi/it/speeches/1976/documents/hf_p-vi_spe_19760315_incontro-clero-romano.html].

[v] «A meno che il diritto non disponga diversamente, alla parrocchia è equiparata la quasi-parrocchia, che è una comunità determinata di fedeli nell'ambito della Chiesa particolare, affidata ad un sacerdote come suo pastore, ma che, per speciali circostanze, non è ancora stata eretta come parrocchia». Can. 516 §1.

[vi] Ho volutamente invertito lo schema del CVII che riposta nell’ordine insegnare, santificare e governare.

[vii] «Col nome di laici si intende qui l’insieme dei cristiani ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano». LG, 31.

[viii] Cfr. Benedetto XVI, Lettera Apostolica in forma di motu proprio: Omnium in mentem, del 26 ottobre 2009 [omissis].

[ix] Non si citano i religiosi perché fuori da questa distinzione (cfr. can. 207 §§1-2).

[x] Un canone che è una vera novità rispetto al dettame del can. 118 del Codice precedente.

[xi] L’ipotesi è già stata avanzata. Si veda: P. Gherri, Parochus personam gerit parœciæ”: can. 532, in La Parrocchia [omissis]. In questo studio Paolo Gherri ripercorre anche l’iter storico del canone con dovizia di particolari. La proposta di

[xiii] G. Incitti, La parrocchia senza presbitero, in La parrocchia [omissis]. Nel prosieguo dell’articolo l’autore (anche consultore della Congregazione per il Clero) suggerisce che la delega per alcuni atti la potrebbe dare il parroco. Ma qui si presuppone che un parroco ci debba essere comunque, diversamente dall’ipotesi su suggerita.

[xiv] Cfr. F.G. Brambilla, La pastorale della chiesa in Italia dai tria munera ai cinque ambiti?, in Vita e Pensiero [omissis].


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