Dal concorso a parroco alla missione della comunità parrocchiale?
L’Istruzione della Congregazione
per il Clero su “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al
servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa” è l’occasione per
ribadire i limiti di un certo modello di parrocchia e le potenzialità della
comunità parrocchiale. Tuttavia si cercano laici idonei mantenendo modelli
parrocchiali e clericali inidonei.
Ma come è vero che i parroci non
vanno sostituiti così è necessario che i laici non siano disconosciuti.
Umberto R. Del Giudice
Introduzione
È stata resa nota ieri (20 luglio
2020) l’Istruzione “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al
servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”, promulgata lo
scorso 29 giugno[i].
Il documento è presentato dal
sito della Conferenza Episcopale Italiana come una trattazione del «tema della
cura pastorale delle comunità parrocchiali, dei diversi ministeri clericali e
laicali, nel segno di una maggiore corresponsabilità di tutti i battezzati»[ii].
Non nascondo un certo entusiasmo
nel leggere la parte introduttiva dedicata alla realtà delle comunità
parrocchiali. Non leggevo da molto una Istruzione capace di riprendere e far
vibrare i temi del Concilio Vaticano II con una certa sobrietà e lungimiranza.
Vorrei brevemente passare in
rassegna alcuni punti che mi hanno particolarmente colpito ad una prima lettura
e che credo siano nell’insieme il pregio e il difetto di questa Istruzione.
La breve riflessione è preceduta
da una constatazione storica introduttiva sulla realtà della parrocchia e sulla
figura del parroco.
La conclusione presenta un breve
“rilancio” senza azzardo.
Dal parroco in cura d’amine (per
concorso) all’identità comunitaria
Il contesto storico, ecclesiale,
culturale e antropologico della parrocchia è decisamente cambiato.
Ho avuto il piacere di conoscere parroci
cooptati “per concorso”. Tra gli altri ricordo una figura eccezionale: nel
quartiere, in cui ha operato per ben 62 anni, don Antonio era ed è un’istituzione.
Ancora oggi è ricordato come il parroco.
Don Antonio, al Vescovo che gli
chiedeva di prendere in considerazione di lasciare la parrocchia per raggiunti
limiti di età, rispondeva che era “entrato per concorso” e nessuno poteva
sostituirlo: questa non sembri una “pretesa” ma sia considerata un’idea di
stabilità e continuità che in passato è sembrata molto efficace ed efficiente.
Non dimentichiamo che prima di Trento i “parroci” potevano essere nominati dal
papa e ad personam: una procedura che teneva conto più dell’amministrazione
del territorio (tra præbenda e beneficium)
che delle reali competenze dei chierici[iii]. Quella
del “concorso”, dunque, mi sembra fu una vera innovazione, almeno per i secoli
della Controriforma.
Ho nel cuore il buon esempio e la
testimonianza di don Antonio ‘o parroco, ma è facile capire da dove derivasse
quella mentalità per la quale il “parroco” era “tutto” e “per sempre” nella “sua”
parrocchia.
Questa citazione affettuosa e rispettosa
di una figura ormai quasi mitica, ricorda quanto il Concilio di Trento abbia
voluto “un parroco” per la “cura d’anime”, per «insegnare al popolo
quelle verità che a tutti è necessario sapere per la salvezza, e di amministrare
i sacramenti»[iv]
in un contesto (si badi) controriformistico non solo diverso da quello odierno ma
molto, molto lontano per usi, costumi e cultura generale. Con il motu
proprio Ecclesiæ Sanctæ,
nel promulgare norme per l’applicazione dei dettami conciliari[v], Paolo
VI sopprime il “concorso a parroco” (n. 18 §1)[vi] pur
voluto dal Concilio di Trento[vii].
Cosa fece Trento in relazione al
“territorio parrocchiale”?
Il Concilio di Trento, in fondo,
ha voluto dare ordine e stabilità al territorio, alla società e alla Chiesa
creando nuove parrocchie, obbligando i parroci alla residenza, introducendo un
esame di idoneità e concorso alla nomina di parroco e garantendo redditi alle
parrocchie e ai parroci pur proibendo il cumulo di benefici.
È innegabile che, dal punto di
vista storico-ecclesiastico, per quell’epoca tale manovra appare una riforma
importante, innovativa, appunto.
Il parroco diveniva, dunque, il
primo uomo sul territorio non solo dal punto di vista ecclesiale ma anche
sociale. L’assise tridentina alla figura del parroco conferiva l’incarico di
curare i libri delle anime, delle confraternite e i vari archivi. Tutto questo
faceva del parroco un “presidio culturale, sociale, istituzionale” in un
ambiente in cui “tutti erano cattolici”.
Molto, moltissimo è cambiato.
Eppure una certa mentalità (del parroco tridentino) resiste e va superata. Prova ne sia l’introduzione non breve dell’Istruzione di oggi in cui non si parla di parroco ma di “parrocchia” definita “comunità convocata intorno alla Mensa della Parola e dell’Eucaristia”: una bella introduzione che appare più come monito e invito al cambiamento che come descrizione. Di più, il documento porta il titolo che è insieme indicazione e richiamo: c’è bisogno di una “conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”. Conversione pastorale? Sì, a patto che cambino le identità pastorali.
Tuttavia, nella prima parte dell’Istruzione
le parole sono ben soppesate e l’immagine del chierico-parroco, guida della
comunità, non sembra affatto esser cambiata.
Eppure in questo contesto in cui
è centrale la comunità “missionaria” il parroco, oltre essere chierico e quindi
collaboratore stretto del Vescovo, non appare solo “pastore” che esercita il
ministero della autorità[viii], ma guida
di una comunità che è chiamata ad avere una propria identità ben delineata,
cristiana e missionaria insieme (poiché le due cose non possono essere separate).
Per questo, riascoltare oggi nell’Istruzione l’eco di un’ecclesiologia che riparte (anche per il modello parrocchiale) dai battezzati non sembra(va) scontato. Rimane quasi una sorpresa, nonostante i limiti. Piccoli passi riflessivi che lasciano la seconda parte ripercorrere la scia dell’altra Istruzione interdicasteriale “su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti Ecclesiæ de mysterio”[ix].
Sembra strano, eppure l’ecclesiologia
del Concilio Vaticano II, soprattutto in riferimento alle strutture
parrocchiali di cui facciamo esperienza o di cui abbiamo notizie, sembra una novità
lontana e questo non per colpa dei chierici ma di tutto il Popolo di
Dio: in fondo, una parte di popolo, “il” parroco, lo vuole ancora; come anche
alcuni parroci vogliono la propria porzione di “popolo” senza nulla cambiare o
“convertire”: c’est plus facile, je crois. Ma la resistenza più forte viene
dalle norme: si può parlare di identità parrocchiale e comunitaria ribadendo la
centralità della luce battesimale di cui tutti i cristiani sono investiti ma se
poi le norme indicano una “guida” e una “autorità” tutto, quasi, ritorna a
posto, anche se con qualche ristrutturazione strutturale.
Alcuni punti su cui riflettere
Al di là di possibili
opportunità, alcune aperture (?) del documento sembrano comunque confermare una
ecclesiologia parrococentrica: le novità rimangono, allo stesso
tempo, opportunità e limite per le comunità parrocchiali e le
loro identità.
Sottolineo alcuni punti.
La prima parte
Le comunità parrocchiali sono
invitate ad uscire da se stesse (n. 2). Questo invito, importante nel contesto
dell’introduzione, mostra tutta la fragilità delle comunità attuali in cui la
discrepanza e la separazione tra cultura cristiana e cultura sociale è
evidentemente (riprenderò dopo questa evidenza che si ripete nella storia). L’autoreferenzialità
delle parrocchie (e dei parroci) rimane un problema lì dove il contesto sociale
(ce ne siamo accorti solo ora?) è in continuo cambiamento: è «accresciuta
mobilità e la cultura digitale hanno dilatato i confini dell’esistenza» (n. 8) e
viviamo una società “aperta” in cui le relazioni sfuggono alle maglie strette
dell’idealismo statico. Le esperienze di tutti sono cambiate e cambiano anche
le esperienze religiose. Di questo ne dobbiamo tener conto (solo ora?): è una
bella presa di coscienza (da parte di un documento della Curia romana).
La comunità parrocchiale è
chiamata così a vivere una testimonianza forte quanto direi delicata in un
contesto sociale che è in continua sollecitazione «evitando la mera ripetizione
di attività senza incidenza nella vita delle persone concrete» (n. 17).
Tutto questo sarebbe possibile a
partire dalla forza innovatrice e formativa delle celebrazioni, in particolare
quella eucaristica. A tal proposito non si comprende perché è sempre
citata la Lumen gentium e mai la Sacrosanctum concilium: la prima
costituzione ricorda come l’eucaristia sia “fonte e apice di tutta la
vita cristiana”[x],
mentre la seconda afferma che il culmen et fons di tutte le azioni della
Chiesa è la “liturgia”[xi]. Il
diverso accento non è da poco: una comunità che si formi nello spirito di
preghiera e nelle celebrazioni non è una comunità che segue pedissequamente la
sola celebrazione eucaristica che pure rimane il vertice della liturgia ma che
non è tutta la liturgia. La formazione spirituale ha bisogno di tutto… E anche
questo dice un vecchio modello ecclesiale e liturgico. Ci si potrebbe chiedere
allora: quale conversione missionaria se non si parte dalla formazione totale
della comunità mentre il centro rimane la celebrazione eucaristica col parroco
che presiede? Utile il rimando alla dinamica dell’iniziazione cristiana al n.
23 (che pure vuole dire però importanza delle dinamiche celebrative e graduali).
Che vi siano dinamiche celebrative accoglienti e pluralistiche lo indica poi
anche la citazione dello “stile spirituale ed ecclesiale dei santuari” al n.
30. Che però va compreso e ripercorso secondo le dinamiche delle prassi “immediate
e di vicinanza” (vita di preghiera, silenzio, penitenza, attenzione per i
poveri…) piuttosto che della sola celebrazione eucaristica. Ma questa è (forse)
un’altra tematica che merita ulteriori approfondimenti.
Utile anche il richiamo alla flessibilità
e gradualità (n. 36) richiesto dalle dinamiche affettive della stessa identità
comunitaria per evitare ogni “clericalizzazione della pastorale” (n. 38) e
ribadire che è necessario che «ogni battezzato si scopra protagonista attivo
dell’evangelizzazione» (n. 39).
Inizia poi una parte più
normativa.
L’impegno dei laici? Straordinario
e non definitivo con formazione tutta da fare
Al n. 89, nell’ambito della
possibilità che il Vescovo diocesano affidi l’esercizio della cura pastorale di
una parrocchia a un diacono, a un consacrato o un laico, o anche a un insieme
di persone (ad esempio, un istituto religioso, una associazione), si ribadisce
la necessità di formazione ma anche di vedere tali soluzioni solo
come straordinarie e adottabili per il tempo necessario, non
indefinitamente. Intanto è chiaro che la formazione sia un punto
dolente poiché quei luoghi che hanno bisogno di laici preparati spesso sono gli
stessi in cui il parroco è (stato) “tutto”, con o senza concorso.
Penso ai luoghi di montagna o ai
luoghi isolati di alcuni entroterra. Quanta formazione sarà arrivata lì? E
quanta se ne dovrebbe fare dal punto di vista teologico, pastorale… (forse
anche culturale)?
E che la soluzione sia straordinaria
e temporanea lo ribadisce il n. 90. Una precarietà che però non fa bene
né alla comunità né a coloro (per lo più laici oltre che diaconi) che si
dovrebbero responsabilizzare. La straordinarietà della responsabilità
può responsabilizzare le comunità creando singoli laici autorevoli in una
comunità non preparata e non responsabilizzata la cui identità missionaria dipende
sempre dall’autorità e dalla guida: e questo sarebbe una pezza nuova su un
vestito vecchio.
Un’apertura (bella quanto già possibile) è data dal n. 98 per l’affido ufficiale di alcuni incarichi a diaconi, a consacrate/i e a laici.
Si tratta di:
1. Presiedere,
eccezionalmente, la celebrazione della Parola nelle domeniche e nelle feste di
precetto, quando manca il ministro sacro o, per altra grave causa, diventa
impossibile la partecipazione alla celebrazione eucaristica.
2. Amministrare
il battesimo;
3. Celebrare
il rito delle esequie.
Tuttavia, l’apertura rimane
straordinaria col pericolo di produrre identità comunitarie non convertite ma
solo guidate in modo diverso.
Queste possibilità vengono poi “coronate”
dalla possibilità di nozze con assistente laico (n. 100) di cui di seguito.
Dell’omelia del laico
Non si capisce perché non si vuole
usare in modo chiaro il termine “omelia”. La paura atavica e infondata di descrivere
come “omelia” la predicazione di un laico durante una celebrazione è legata
alla assimilazione della predicazione all’atto della presidenza della celebrazione
eucaristica. Il n. 99 in modo implicito chiama la predicazione dei laici
“omelia” quando asserisce che «non potranno invece in alcun caso tenere
l’omelia durante la celebrazione dell’eucaristia». Se non possono tenere l’omelia
“durante la celebrazione eucaristica” è perché lo possono fare fuori da essa. A
venire in aiuto e a dissipare i dubbi, e cioè che la predicazione del
laico è “omelia” (al di fuori della celebrazione eucaristica) è l’art. 3
§4 della Istruzione interdicasteriale citata, che così recita: «L’omelia
al di fuori della Santa Messa può essere pronunciata da fedeli non ordinati in
conformità al diritto o alle norme liturgiche e nell’osservanza delle clausole
in essi contenute»[xii]. Questo
testo non ha superato il parere di una Commissione del 1971[xiii] ma ha
chiaramente parlato di “omelia”, ovvero di atto liturgico in un’azione
liturgica (che non sia quella eucaristica) in riferimento alla predicazione di
un laico: quindi, anche quella di un laico è omelia. Ma non si
comprende perché il termine sia sempre più messo da parte per la predicazione
dei laici e non si comprende se non per un’assurda paura della confusione di
ruoli: se non c’è celebrazione eucaristica nessuno scambierà l’omelia del laico
con la presidenza dell’eucaristia solo perché si chiama “omelia”! Tuttavia, chiamare
le cose col proprio nome restituirebbe ai laici una dimensione della
predicazione e potrebbe donare loro maggiore responsabilità e coscienza
dell’azione liturgica cui sarebbero chiamati (pur sempre fuori dalla
eucaristia, stando la norma attuale).
Così il n. 99 recita
laconicamente: «I fedeli laici possono predicare in una chiesa o in un
oratorio, se le circostanze, la necessità o un caso particolare lo richiedano
[…]. Essi non potranno invece in alcun caso tenere l’omelia durante la
celebrazione dell’Eucaristia».
Si dà e si toglie: si
concede per necessità; ci si trattiene per paura.
L’assistenza ai matrimoni
Il n. 100 sembra una novità. In
realtà che il fedele laico possa fungere da assistente (qualificato) al
matrimonio non è per nulla una novità. Previsto dal can. 1112 del CIC e dalle
rubriche liturgiche[xiv]. Anche
qui il clamore giornalistico confonde i contesti. La rubrica dei Praenotanda dell’Ordo
nella sua ultima edizione al n. 25 recita: «Dove mancano sacerdoti e diaconi,
il Vescovo diocesano, previo il voto favorevole della Conferenza Episcopale e
ottenuta la facoltà (licentia) della Santa Sede, può delegare dei laici
perché assistano ai matrimoni. Si scelga un laico idoneo, capace di preparare i
fidanzati e adatto a compiere nel debito modo la liturgia del Matrimonio. Egli
richiede il consenso degli sposi e lo riceve in nome della Chiesa»[xv].
La rubrica mette insieme i §§ 1-2
del can. 1112 e il §2 del can. 1108.
Nonostante il Codice e questa
bella rubrica del 1991 il Rito del matrimonio nell’edizione italiana del 2004
(e quella successiva) ha perso il terzo capitolo dell’edizione universale,
ovvero il capitolo intitolato “Ordo celebrandi Matrimonium coram assistente
laico”.
Insomma, la possibilità dal punto
di vista della Chiesa cattolica universale c’era. La Curia romana ha concluso
poi di non dare questa possibilità alle Chiese del vecchio continente.
Nel 2007 i vescovi della
Conferenza Episcopale Svizzera lamentavano di non aver mai avuto la possibilità
di una delega in tal senso pur avendola richiesta. La Conferenza elevetica,
infatti, promulgò un bel testo (a cui io stesso lavorai alle bozze essendo
allora docente incaricato a Lugano), che dovette poi essere ristretto dalle “indicazioni”
della Curia romana e che non trovò il respiro che gli stessi Vescovi
auspicavano all’inizio: ed era il 2007[xvi]. Alla
luce di tutto questo sembra che il testo attuale sia un notevole passo avanti.
Eppure, non si comprende perché, rebus sic stantibus, un Vescovo debba chiedere
la licenza dalla Santa Sede solo previo il voto favorevole della Conferenza
Episcopale. Perché vincolare il singolo vescovo al voto della Conferenza?
Questo rimane un limite. In realtà forse sarebbe stato più opportuno a questo
punto dare “licenza aperta” ad ogni Ordinario del luogo pur vincolando il tutto
al parere (non consenso) delle Conferenze. Nessun Vescovo si sognerebbe di
rompere il vincolo di comunione con la propria Conferenza in una decisione del
genere. Eppure, gli Ordinari del luogo sono ancora vincolati tanto alla
Conferenza quanto alla Curia romana. E questo sembra un grande vincolo rispetto
ad un rito universale che contempla la possibilità dell’assistente laico. Ordinari
che non ordinano del tutto: e tutto rallenta…
Preti moderatori o Vescovi?
Senza entrare in specificazioni
canoniche (non ora almeno) nella distinzione tra vicariato foraneo, unità
pastorale, zona pastorale, parrocchie in solidum, sorge una
piccola perplessità. Considerando che alcune diocesi sono davvero enormi
(quella di Aversa conta 538.290 battezzati su 560.650 abitanti) e che alcune
unità pastorali potrebbero essere grandi quanto una piccola diocesi (basti
ricordare che, escludendo le abbazie o le prelature territoriali, ci sono realtà
dai numeri esigui come la Diocesi di Ozieri che nel 2016 contava 49.509
battezzati su 50.109 abitanti), considerando che le comunità parrocchiali hanno
bisogno non solo del presbitero ma anche del vescovo, credo che si debba
riflettere sulla possibilità di eleggere più Vescovi ausiliari o coadiutori,
forse sarebbe un modo per evitare l’accentramento continuo dell’autorità e
dell’azione. Le identità hanno bisogno di presenze e la Chiesa è fatta
anche di presenze gerarchiche: la gerarchia non è autoritaria ma è
segno di comunione. Magari qualche unità pastorale, con pochi preti, con laici
più formati e con un Vescovo più vicino e presente potrebbero far nascere e
sviluppare identità missionarie più forti. A patto però che i parroci non
facciano i papi nelle parrocchie, che i Vescovi non facciano in re e che i
laici siano ben formati. Non si tratta di clericalizzare la pastorale ad
modum episcopalis ma di donare immediatezza e stabilità alle comunità che
hanno bisogno non solo di un parroco responsabile ma di un vescovo prossimo.
L’armonia comunionale è data anche dalla presenza delle differenze dei
ministeri, senza lasciare il vescovo troppo lontano, quasi come figura
sacra e mitologica.
Ho la fortuna di conoscere e di
vivere nell’amicizia di ministri nell’episcopato che si spendono come non mai
per tutti: ma le comunità parrocchiali, grandi o piccole, hanno bisogno della
loro vicinanza. Sempre. Questo aiuta a far crescere e a formare.
Per questo, il vicario episcopale
o foraneo potrebbe essere un buon vescovo ausiliare con autorità propria pur
sempre vincolata in comunione all’autorità del Vescovo titolare. Conosco vicari
foranei che sono così presenti e così competenti, ricchi e pronti nel loro
servizio, che potrebbero fare solo del bene e aiuterebbero le comunità
parrocchiali (senza parroco stabile) ad essere più dinamiche.
Sarebbe proprio impensabile?
Conclusione
C’è bisogno di cambiare e credo
che il richiamo ad essere attenti al mondo che cambia pur contenuto nell’ultima
Istruzione della Congregazione per il Clero sia la constatazione di
quanto già avveniva da qualche decennio a questa parte.
Vi son almeno tre costatazioni di
cui tener presente:
- La
parrocchia non può continuare a presentare una cultura cristiana del dovere
senza ed ignorare le diverse aspirazioni sociali e
spirituali del vissuto dei cristiani “non praticanti”. Molti “non
praticanti”, non praticano “quella parrocchia” sebbene siano praticanti di
ricerca spirituale e fedeli alla onestà e alla corretta convivenza: le
dinamiche cambiano e deve cambiare la comunità.
- Le
unità pastorali non dovranno riflettere un’ingegneria ecclesiastica
perfetta canonicamente e inattaccabile dottrinalmente quanto lontana e
artefatta, pericolosa struttura che complica e allontana ancor di più senza che
i cuori siano vicini e in comunicazione;
- Non
si può ripensare le strutture delle comunità parrocchiali senza ripensare
il ministero ordinato e l’identità del laicato.
Nella Francia del 1946, e dopo
cinque anni di esperienza parrocchiale, Georges Michonneau, presbitero dal 1922,
descriveva con lucidità quanto la cultura cattolica parrocchiale fosse ben
lontana dalla cultura della società: sta succedendo lo stesso? Sì. Bisogna
constatare che il microcosmo cristiano diffuso in alcuni ambienti parrocchiali,
attraverso ciò che viene detto e non detto, vissuto e non vissuto, è lontano
dalla cultura dimenticando così di poter parlare con essa e in essa per una
dinamica veramente missionaria. Per Michonneau la parrocchia non aveva
percepito il lento quanto inesorabile distacco tra la cultura e il linguaggio
cristiano e di fede pur vissuto dalle “classi operaie” e la prassi parrocchiale[xvii]. Anche
oggi molte comunità corrono il rischio di essere ben organizzate e pur rimanere
autoreferenziali, nel proprio linguaggio e nelle proprie azioni, ribadendo,
conservando e riproponendo un modello di comunità quasi ottocentesco che non
parla a tutti. Ciò che può aiutare è l’identità di una comunità che non
fugge dalla collettiva, che tende anche alla coesione sociale senza la
demarcazione delle differenze ma accogliendo le differenze e lasciandole vivere
anche solo nell’accoglienza e nel rispetto. Quando le comunità parrocchiali
diventano il profilo di una comunità statica che mal accoglie anche altri
linguaggi ed esperienze religiose (cristiane e non cristiane) il pericolo di
comunità non missionarie è dietro l’angolo[xviii].
Ma oltre alle dinamiche delle
comunità singole, le questioni aumentano quando le comunità vengono messe
insieme, accorpate, unite… Il pericolo di trovarsi solo davanti ad una bella struttura ingegneristica più che ecclesiale è evidente:
«La questione
delle unità parrocchiali - scriveva già nel 2003 Franco Giulio Brambilla – si è
presentata alla ribalta con particolare urgenza, perché la diminuzione del
clero sembra ormai rendere impossibile immaginare la parrocchia del futuro con
lo stesso numero di sacerdoti attuali. Le tipologie delle unità pastorali sono
però molto diverse: più parrocchie con un unico sacerdote, più parrocchie con
più sacerdoti che hanno una responsabilità comune, più parrocchie con un
sacerdote e una comunità di religiose in servizio pastorale, le parrocchie di
una città di media grandezza, coordinate da un parroco “moderatore” (unità
cittadine), più parrocchie con un solo vicario parrocchiale per la pastorale e
giovanile unitaria. Tuttavia, a mano a mano che il tempo passa ci si accorge
che le unità pastorali non possono ridursi ad essere una forma di “ingegneria ecclesiastica”,
in cui si montano e si smontano le parrocchie e le loro strutture, per creare una
specie di grande sovrastruttura difficile da governare»[xix].
Infine, bisogna dirselo. Le
strutture ingegnose potranno anche essere funzionali ma la loro efficacia potrà
essere vanificata dal fatto che verrà proposta, pur con organismi comunitari
diversi, la stessa dinamica ecclesiale: una guida – una comunità. Ripensare
il ministero ordinato non significherà rileggere le competenze e riscrivere le
abilità di leadership dei preti ma accogliere nella semplicità la vera identità
che rende tutti chiesa: la ricchezza della vita nuova in Cristo di ogni
battezzato, con le sue peculiarità, le sue potenzialità e le sue
responsabilità. Pensare alle comunità di presbiteri senza pensare alla comunità
coi laici e pur sempre un determinare un distacco tra questi e quelli. Per
questo è urgente che ogni comunità, guidata da un presbitero con la cura di uno
o più laici, debba mettere al centro la formazione delle donne e degli
uomini in quanto sostanza della comunità parrocchiale in tutto il loro vissuto
nella luce di Cristo.
Sembrano così ritornare con tutta
la loro efficacia le parole di fratel Enzo Bianchi:
«La
“conversione della pastorale” vuole essere un cambiamento in senso missionario,
in modo che le comunità cristiane vivano una spinta missionaria e, mai prigionieri
di autoreferenzialità, sappiano annunciare l’evangelo tra gli uomini». Così
bisognerà essere attenti alla parrocchia come «realtà semplice, semplicissima,
come dovrebbe essere del resto tutta la vita cristiana: l’esigenza di semplificazione
invocata a livello di fede, di pastorale, di vita spirituale, vale anche per la
parrocchia»[xx].
Difficile mettere al centro il
battesimo di tutti nella propria vocazione, donazione, competenza,
responsabilità e semplicità?
Ci vuole una guida ma urgono
battezzati preparati.
Ci vogliono battezzati ma c’è
bisogno di guide esperte e aperte.
Come è vero che i parroci non
vanno sostituiti così è necessario che i laici non siano disconosciuti.
Tutto questo richiede la semplicità
della maturità ecclesiale di tutti, laici, religiosi e chierici.
[i] Cfr. http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2020/07/20/0391/00886.html#ita
[iii] Dopo
il Concilio di Trento i sacerdoti devono concorrere alla parrocchia con un
concorso, quando la parrocchia rimaneva senza parroco. Dopo l’esame di idoneità
l’Ordinario procedeva a nominare il chierico che sembrava più adatto. Si noti
che prima del Concilio di Trento i parroci potevano essere addirittura nominati
anche dal papa. Il concorso, dunque, sembra essere stato un grande passo in
avanti rispetto alle competenze attestate dei singoli chierici e l’autorità dei
Vescovi sulle parrocchie.
[iv] Cfr. Concilio di Trento, Sessione XXIII.
Canoni sul sacramento dell’ordine, can. XIV.
[v] Cfr. Paulus Pp. VI, Litteræ apostolicæ motu proprio datæ
normæ ad quædam exsequenda ss. Concilii vaticani ii decreta statuuntur:
Ecclesiæ sanctæ, 6 agosto 1966.
[vi] «Il
bene delle anime esige che il Vescovo goda della libertà richiesta per
conferire con giustizia ed equità ai sacerdoti più idonei gli uffici e
benefici, anche non curati. La Sede Apostolica stessa non si riserva più il
conferimento di uffici o di benefici, siano essi curati o non curati, salvo i
benefici concistoriali. Nel testo di fondazione di qualsiasi beneficio sono
proibite per sempre le clausole che limitassero la libertà del Vescovo quanto
al loro conferimento; sono abrogati i privilegi non onerosi, eventualmente
concessi fino ad oggi a persone fisiche o morali, che comportano un diritto di
elezione, di nomina, o di presentazione per qualsiasi ufficio o beneficio non
concistoriale vacante; sono abrogate le consuetudini e ritirati i diritti
quanto alla nomina, all'elezione, alla presentazione di sacerdoti ad un ufficio
o beneficio parrocchiale; la legge del concorso, anche per gli uffici o
benefici non curati, è soppressa». Corsivo non originale.
[vii] Cfr. Concilio di Trento, Sessioni
XXIII-XXIV. Decreto di riforma, can. XVIII).
[viii] «Si
tratta di un ministero che richiede al sacerdote una vita spirituale intensa,
ricca di quelle qualità e virtù che sono tipiche della persona che « presiede »
e « guida » una comunità, dell'« anziano » nel senso più nobile e ricco del
termine: tali sono la fedeltà, la coerenza, la saggezza, l'accoglienza di
tutti, l'affabile bontà, l'autorevole fermezza sulle cose essenziali, la
libertà da punti di vista troppo soggettivi, il disinteresse personale, la
pazienza, il gusto dell'impegno quotidiano, la fiducia nel lavoro nascosto
della grazia che si manifesta nei semplici e nei poveri». Giovanni Paolo II, Esortazione
apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 26.
[ix] Congregatio Pro
Clericis Et Aliæ, Instructio de quibusdam quæstionibus circa
fidelium laicorum cooperationem sacerdotum ministerium spectantem: Ecclesiæ de mysterio, 15 agosto
1997, in AAS LXXXIX (1997) [omissis].
[x] Concilio Ecumenico Vaticano II,
Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, 21 novembre 1964, n.
11: AAS, LVII (1965), [omissis].
[xi] Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione sulla
Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, dicembre 1963, 10: AAS, LVI
(1964), [omssis].
[xii] Cfr. Ecclesiæ
de mysterio.
[xiii] Una Commissione
pontificia per l’Interpretazione autentica dei Decreti del Concilio Vaticano II
dell’11.01.1971 dichiarò che i laici non possono tenere l’omelia. Tuttavia il
contesto cui si faceva riferimento è sempre quello della celebrazione
eucaristica.
[xiv] Per un
approfondimento interessante si veda: J.D. Gandía
Barber, El matrimonio ante asistente laico. Estudio
canonico-liturgico, [omissis].
[xv] Ordo celebrandi Matrimonium. Editio typica
altera [omissis], Città del Vaticano 1991,
n. 25.
[xvi] Cfr. https://www.bistum-chur.ch/wp-content/uploads/2013/12/Laici-assunti-al-servizio-della-Chiesa-Documenti-dei-Vescovi-Svizzeri-12-Gennaio-2005.pdf
[xvii] Cfr. G. Michonneau,
Paroisse, communauté missionnaire, conclusions de cinq ans d'expérience en
milieu populaire, Paris 1946.
[xviii] Sul
tema si veda con profitto: L. Bressan,
La parrocchia oggi. Identità, trasformazioni, sfide, [omissis].
[xix] F.G. Brambilla, La parrocchia oggi e domani, [omissis].
[xx] E. Bianchi – R. Corti, La parrocchia, [omissis].
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