Caro Andrea ti scrivo...






Al maestro e amico, Andrea Grillo
cartolina (aperta) da Napoli


(Umberto R. Del Giudice)





Caro Andrea,
credo che i termini che più ti ho sentito usare in questi ultimi anni (circa venti, da quando ho seguito la tua prima lezione…), e che forse ricordo perché in sintonia spesso con quello che provavo, siano imbarazzo e relative voci del verbo imbarazzare.
Molte strutture mentali che ancora affliggono le nostre comunità ecclesiali fanno sentire proprio così, “imbarazzati”.
E diventano “imbarazzanti” quelle strutture mentali che producono testi e documenti che poi vengono commentati anche da chi non fa parte delle nostre comunità ecclesiali, in modo particolare da chi guarda da lontano o con sospetto il cattolicesimo.
Davanti a quelli che dicono “ma in questo o quel documento, in questo o quel discorso… i vostri pastori hanno affermato questo e quello…”, insomma davanti a questi che definiamo “non-praticanti” e che seguono le vicende delle nostre comunità, non posso non provare un po’ di imbarazzo mentre tento di aggiustare il tiro o di correggerlo nettamente.
In effetti, per quelli che non sono addentro alle questioni teologiche, se “l’ha detto il vescovo o il prete”, non può essere diversamente per tutta la comunità.
E mentre spiego che non è così, mi accorgo che sempre più sta diventando imbarazzante per tutta la comunità ecclesiale aver voluto (da parte di qualcuno) relegare il Concilio Vaticano II a puro pastoralismo o negare a quell’assise la produzione costitutiva per la Chiesa di un’ermeneutica dalla quale nessuna teologia e nessun diritto canonico “pò scappare”.

Questo imbarazzo “ab extra” (da fuori) è parallelo ad un'imbarazzante situazione che ci costringe ad un lavoro continuo “ad intra”, ovvero nelle nostre comunità, per evitare i giochetti di chi si sente detentore di tutta la dottrina, perché “ordinato in sacris”, e vuole dettare disciplina in un movimento “ad extra”, verso quel fuori che sarebbero tutti i 'non ordinati'.

Quanti imbarazzi…

È imbarazzante vedere una parte di Chiesa scrollarsi da dosso il Concilio, non capirlo, non volerlo capire.
Ma soprattutto è imbarazzante che le “strutture mentali” debbano essere confuse con “dottrine sicure”.
Ed è altrettanto imbarazzante che dopo qualche anno di studio in cui “s’impara di tutto un po’ ”, si possa legiferare per molti e su molto.

Imbarazzante è che si insegni la teologia con gli strumenti logici neoscolastici (senza davvero comprenderli) come se fossero “i più sicuri”, o anche “i soli veri”.

È imbarazzante che la possibilità di aprire a forme di culto “extraordinarie” (solo per accontentare quelle comunità “imbarazzate” dal Concilio) sia letta come un avvalorare non solo i riti ma anche le dottrine derivate da quelle forme rituali e intellettuali.
Ma è soprattutto imbarazzante aver ripreso quei riti scavalcando un Concilio che intendeva rinnovare la Chiesa a partire dai riti.

È oltremodo imbarazzante dover sempre correggere il tiro di chi parla delle azioni agite “in persona Christi” senza includere in questa categoria anche il singolo battezzato e dimenticandosi l’apposizione necessaria, “capitis”, nel caso si parli di ministri ordinati.
È imbarazzante dover ricordare che “capitis” dice molto ma non dice identificazione tra “Cristo” e il “ministro”.

È imbarazzante dover ricordare che senza il contesto ecclesiale, senza le indicazioni proprie determinate dalla competente autorità e senza il suo mandato, non tutte le azioni del ministro ordinato sono “immediatamente” azioni “in Christo capitis”; e se questo è vero dal punto di vista liturgico lo è ancor più dal punto di vista giuridico.

È imbarazzante notare come molti hanno dimenticato che l’operare “in persona Christi capitis” si comprende nell’ambito del contesto simbolico disegnato dalla relazione (stretta) tra “ordine” e “culto(/eucaristia)”, mai fuori di essa tanto da “sacralizzare” colui che, pur operando “in Christo capitis” per mandato ecclesiale (e solo lui lo può fare una volta vi sia il mandato), non è “in persona Christi” se non nel senso “comune” a tutti i battezzati.

È imbarazzante sentire ancora parlare di “materia” e “forma” (se vogliamo parlare con queste categorie) come se tutte le altre realtà fossero irrilevanti, quasi insignificanti o, peggio ancora, un “non-necessario”, semplicemente inutili e tollerate.
È dunque imbarazzante vedere sempre più confuso il piano soggettivo con quello oggettivo, il personale con il giuridico, la dimensione spirituale con quella normativa, senza che in alcun modo si tenga (finalmente) conto della dimensione intersoggettiva che pure fonda la stessa realtà e la stessa fede.

In relazione alla dimensione rituale, è oltremodo imbarazzante sentire ancora pastori, teologi, docenti, catechisti, usare, sì, la nuova lingua della riforma liturgica (in forma di tenerezza pastorale) senza che si rendano capaci di liberare la propria mente dalle strette “maglie dell’oggettività disciplinare” e non riuscire così a cogliere un’altra dimensione della stessa disciplina e della stessa teologia.

Forse bisognerebbe subito chiedere, come spesso fai tu, di chiarire le intenzioni degli interlocutori: «ti imbarazza o no il Concilio Vaticano II?».
Forse potrebbe suonare troppo duro e, ti confesso, spesso evito non solo la domanda diretta ma anche il solo credere che ci possa essere qualcuno a cui quella domanda debba essere fatta. Ma, mi accorgo sempre più, che le intenzioni devono essere svelate, e al più presto, per il bene di tutti.

Mi accorgo anche che la comprensione/accettazione formale del Concilio Vaticano II spesso non va di pari passo con la reale capacità di accedere a nuove logiche teologiche.
L’imbarazzo ultimo sta nell’accorgersi che coloro i quali sono responsabili della formazione, dell’insegnamento, della disciplina, non solo recepiscono poco il Concilio ma spesso mancano di strumenti ermeneutici per essere davvero preparati “in re theologica” tanto da aver paura di essere davvero competenti “in re anthropologica”.

E, perdonami, ultimissimo imbarazzo: avere la sensazione che si stia creando una cripta ideale in cui si riuniscono “i veri devoti” che non avranno mai l’ardire di uscire fuori dalla mente vecchia, perché non vogliono o non ne sono capaci, pur parlando linguaggi moderni. In queste cripte chiuse l’importante è che i magnifici marmi rimangano fissi nei secoli.

Bisogna superare dunque gli imbarazzi chiarendo, scrivendo, insegnando: c’è bisogno di alleggerire le incomprensioni ecclesiali e c’è dunque bisogno di chi, come te, lavori per creare strutture ermeneutiche solidali al fine di favorire strutture forti ecclesiali, senza imbarazzi.

Allora, nonostante tutto, caro Andrea, mi auguro che non sarà imbarazzante un giorno poter parlare anche di questa epoca in cui sembra che tanti hanno capito molto, senza capire bene.

Da vecchio allievo e (quasi)giovane amico, saluto riconoscente dal sorridente golfo partenopeo sperando in sicuri momenti migliori.

Senza imbarazzo,

Umberto

Napoli, 1° aprile 2020



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Questa la risposta di Andrea Grillo.



Il mio allievo e ora collega Umberto Rosario Del Giudice mi ha scritto una lettera aperta sul tema singolare dell’imbarazzo. Per questo lo ringrazio e qui gli rispondo di cuore.
Caro Umberto,
non è usuale che ci si scrivano “lettere aperte”. Ma in questo tempo di “chiusura” e di “interruzione dei rapporti immediati” le lettere fioriscono e miracolosamente si aprono. E si può scrivere per richiamare la attenzione, per denunciare un abuso o per riflettere ad alta voce. E’ un fatto singolare, ma forse indice di una nuova e inconsueta esigenza comunicativa.
Tu mi dici che una delle parole più ricorrenti nel mio insegnamento è “imbarazzo”. Di fronte a lettura offerte da “auctoritates” ecclesiali si resta imbarazzati. E’ vero, caro Umberto, scrivendomi queste parole hai suscitato in me una riflessione su alcuni “sentimenti” che percorrono oggi il nostro cuore. E mi chiedo: perchè sono “imbarazzato”? E che cosa mi imbarazza? Provo a identificare alcune figure di questo imbarazzo attuale e a giudicarle in rapporto non semplicemente alla vita cristiana, ma alla vocazione teologica. Che cosa deve fare un teologo se prova imbarazzo?
L’imbarazzo per la inadeguatezza
Nel famoso incipit del capitolo XIV di “Great Expectations” di Ch. Dickens si legge: “E’ una gran brutta cosa vergognarsi di casa propria”. L’imbarazzo che si prova talora nella Chiesa, di questi tempi, assomiglia a questo sentimento espresso da Pip, il giovane protagonista del romanzo. La Chiesa, per fortuna, non è piccola come una famiglia. Ha un corpo grande come un elefante e si estende su 5 continenti. Si può sempre rimediare e ci si può sempre consolare. Ma quando in luoghi strategici accadono fatti deplorevoli, allora l’imbarazzo si fa sentire. Se per provvedere a situazioni di emergenza si usa prevalentemente il registro freddo e scostante di “norme giuridiche”; se per parlare del bisogno di misericordia si tira fuori dall’armadio il vecchio scheletro delle indulgenze; se per affrontare le nuove sfide, si percorrono solo le strade già battute e non si aprono mai sentieri nuovi, l’imbarazzo è inevitabile. Ed è imbarazzo per la “inadeguatezza” con cui la tradizione viene interpretata e mortificata. Quando vedi la inadeguatezza, provi imbarazzo e cerchi di trovare la via del rimedio.
L’imbarazzo per la arroganza
La seconda forma di imbarazzo è peggiore. E’ l’imbarazzo per la arroganza. Anch’essa deriva da inadeguatezza, ma vi aggiunge una forma pericolosa di cecità, diventando violenza. La arroganza non è altro che una inadeguatezza che impone violentemente agli altri di dover essere inadeguati. Nella Chiesa non è così raro che gli inadeguati diventino anche arroganti. Come quel vescovo che venne ad un Convegno teologico ed ebbe la sfrontatezza di dire: “quando affrontate un tema, iniziate sempre dal Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica”. Questa è inadeguatezza arrogante. Di fronte a questo l’imbarazzo è più forte e esige lo scatto di reni della denuncia. Quando uno diventa arrogante, deve essere fermato. Se la macchina della Chiesa – che prende talora questo volto meccanico – inizia a “distorcere” una tradizione, facilmente diventa ideologica. E parla di misericordia mentre opera vendette, parla di tenerezza mentre diventa spietata. E qui, al cristiano sono aperte molte vie, al teologo solo una. Si tratta di prendere la parola. Di fronte all’imbarazzo per arroganza, l’unica forma di prudenza è parlare e parlare chiaro.
L’imbarazzo per il silenzio e per la mancanza di parrhesia
Il terzo imbarazzo discende dal secondo. Se al teologo non resta che parlare, spesso deve costatare, amaramente, che è molto più semplice tacere. Ma questo non è richiesto dal ministero della teologia. Il teologo, infatti, esercita la prudenza nella parola: ha solo quella a disposizione. E deve dire, non tacere, tutto il suo imbarazzo, per la inadeguatezza, per la arroganza e anche per il silenzio. Se in un equilibrio di forze e di autorità, a un dato momento, nella Chiesa emerge una prassi distorta e si iniziano a produrre forme di discorso, o forme di vita pericolosamente scisse, il teologo non deve tacere. Deve dirlo, con tutta la chiarezza che è richiesta. La parola del teologo può fare male. E può fare male anche in modo gratuito e ingiusto. Ma se dice il vero, e mette in guardia da un errore che compromette la tradizione, deve farlo, anche se sa che dovrà pagare un prezzo per quello che dice. Se sulla dottrina eucaristica, o sulla struttura del culto liturgico, sulla gestione delle crisi matrimoniali o sulla pretesa esistenza di un “altro” rito garantito a gruppi reazionari da autorevoli organi ecclesiali si apre un problema e le soluzioni sono vecchie o irrispettose, come è possibili che nella maggior parte degli esperti sul tema, che la Chiesa ha formato e paga per esercitare questo ministero della parola, prevalga la scelta di tacere e di girare il capo dall’altra parte? Vorrei dire così ai teologi: siete pagati per parlare, non per tacere. La Chiesa ha bisogno della vostra parola, soprattutto quando è scomoda. Per fare complimenti non c’è bisogno di formazione specifica.
Caro Umberto, queste tre forme di imbarazzo attraversano le mie lezioni. E’ vero. Certo, non solo imbarazzo. Quanta ammirazione, quanto stupore, quanta sapienza e quanta lungimiranza scopriamo continuamente nello studio del passato e del presente ecclesiale. Ma ciò che imbarazza è il segno di un bisogno di dinamiche positive e di pratiche buone, di categorie da modificare e di argomentazioni da rivoltare, che mi appassionano e che cerco di trasmettere agli altri. E’ una gran bella cosa non vergognarsi della propria casa. Anche a costo di combattere con queste tre forme dell’ imbarazzo.
Ti mando un cordiale saluto e ti stringo la mano, senza guanto

Andrea



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La mia breve e grata controrisposta:




Stamane la risposta puntuale di Andrea Grillo alla mia "cartolina aperta": un'ulteriore lezione sul magistero del teologo.
Sono molto grato ad Andrea e a tutti quelli che hanno contribuito alla mia formazione ecclesiale, umana e, soprattutto, teologica.
Sono convinto che di "teologi" ricchi nel proprio magistero ci sono stati e ce ne sono tanti.
E sono altrettanto convinto che le bellezze della Chiesa superano gli imbarazzi.

Allora mi rivolgo all'amico: grazie, Andrea, perché nel tuo magistero, come anche nell'insegnamento di altri, le parole superano gli imbarazzi.
Il mio vero riconoscimento va a te e a tutti i teologi che, alcuni nell'ombra, non smettono di far riflettere le belle luci della sapienza e della tradizione cristiana. Luci che sono state come l'attrazione del mio modo di essere e vivere nella comunità cristiana, in ogni occasione, in ogni momento, pur nelle mie stanchezze.
E gli "imbarazzi", come dici tu, per l'inadeguatezza, per l'arroganza, per il silenzio e per la mancanza di parrhesia, non ostacolano, né potranno farlo, l'entusiasmo che il nostro stesso patrimonio cristiano e cattolico ci regala.
A te, e a tutti i colleghi, i miei più sinceri ringraziamenti, e non solo per "gli imbarazzi" denunciati, sentiti, indicati o rivelati, ma anche per le parole cha hanno superato quegli stessi imbarazzi. Parole sagge che ritrovo nella tua rispota.
Allora, a lavoro.
E come si dice dalle mie parti, "grazie, Pssò!".

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