In occasione degli auguri per l'Immacolata





Oggi si festeggia l’Immacolata concezione. Gli auguri, gli eventi, le celebrazioni tradizionali e (pro hac vice) domenicali mi impongono una riflessione precisa, sebbene qui limitata, circa alcune prospettive del dogma mariano. Me lo chiede l’essere teologo ma soprattutto l’essere marito, padre, uomo e amico di chi sollecita spiegazioni.
Quella di oggi è una solennità instaurata dopo la proclamazione nel 1854 del relativo dogma mariano voluto da papa Pio IX.
Come suona la definizione di questo dogma? Che «la beatissima Vergine Maria fu preservata, per particolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, immune da ogni macchia di peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento» (Pio IX, Ineffabilis Deus).
È indubbio che questa definizione può dire molto, ma al contempo suscitare perplessità e obiezioni forse proprio perché relativa ad un linguaggio (teologico) e forse ad un contesto ecclesiale (e storico-sociale) lontano da quelli attuali.
Di seguito poche battute articolate in tre punti: a) alcune distorsioni della mariologia in ambiente cattolico; b) la percezione della solennità mariana in ambiente anticlericale e femminista; c) una posizione personal-relazionale per riflettere sul dogma.
a)      Va ricordato anzitutto che alcune “mariologie” hanno evidentemente distorto, col passare del tempo sempre in modo più marcato, la percezione della figura di Maria da parte della comunità cristiana riequilibrata negli ultimi anni dal Concilio Vaticano II. L’immagine di Maria di Nazareth (che nella Lumen gentium è presentata al capitolo otto “nel mistero di Cristo e della Chiesa) è stata oggetto di un costante approfondimento da parte della comunità cristiana (dalla “piena di grazia” alla “Theotokos”) ma ha anche subito una progressiva proiezione indebita. Sulla figura di Maria sono stati trans-feriti (il riferimento a lemmi di origine psicodinamica non è casuale) contenuti teologici, immagini mitologiche femminili, espressioni di pietà devozionale al limite del paganesimo. Insomma, sono stati usati paradigmi interpretativi che hanno limitato e distorto la vera natura della grandezza (e, direi, della “pienezza”) di Maria di Nazareth. Mi riferisco a quelle tendenze che sono andate definendo, fin dall’antichità, una certa “mariolatria” (adorazione di Maria) grazie anche ad una narrazione mitologica dello stesso evento cristologico. In un vangelo apocrifo, ad esempio, si legge che Gesù appena nato si rivolge alla madre presentandosi come “logos incarnato” e corrispondendo poi a molte richieste miracolose di Maria (così ad esempio ne Il Vangelo arabo dell’infanzia). Maria appare come “domina”, “madonna che tutto può e tutto può chiedere”; ed è sintomatico che i vangeli apocrifi, che cercano di colmare le apparenti “lacune” dei vangeli canonici, esaltino la figura della “signora” Maria.
Così nell’antica si va radicalizzando il modello antitetico Eva-Maria: questo parallelismo farà di Eva, e di tutte le donne, il prototipo della tentazione/dannazione, esaltando, nella dinamica dell’anti-tipos, Maria quale personificazione della obbedienza/salvezza.
Nel medioevo l’elogio ma anche l’esaltazione della figura mariana subisce una radicalizzazione attraverso le forme di culto e di pietà popolare (vedi ad esempio la preghiera del Rosario): i fondamenti biblici e teologici lasciano ancor più spazio alla fantasia devozionale. Lo stesso Francesco d’Assisi, sebbene riscopra Maria in un’ottica del rispetto e dell’amore di corte per la dama, non riesce ad evitare l’esaltazione irreale.
Nella modernità il testo di Lutero “Commento al magnificat” (Das Magnificat verdeutscht und ausgelegt, 1521), riporta la riflessione mariana più sui binari della “fede”, della “completa confidenza filiale” che Maria mostra verso Dio, divenendo così essa stessa meritevole di “rispetto e di amore”. La controriforma blocca sul nascere gli spunti mariologici luterani.
Una certa mediazione, pur sempre apologetica, tra la prospettiva di Lutero e quella devozionale è data poi dagli scritti di Luigi Grignon de Montfort (Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, forse 1712) e da Alfonso Maria de’ Liguori (Le glorie di Maria, 1750). L’equilibrio mariologico alquanto instabile da parte cattolica non potrà evitare che la tendenza umanistico-rinascimentale faccia di Maria “la più grande delle dee”.
Con questa tendenza si arriverà all’epoca contemporanea in cui si crea una certa tensione tra marialisti e biblisti: i primi intendi a scrivere su “prerogative e privilegi” di Maria; i secondi replicando il mancato fondamento biblico di alcune posizioni dei mariologi. Sembra che il dogma dell’Immacolata concezione servirà anche a mettere a tacere le critiche del rinnovamento teologico (particolarmente quello biblico, patristico e liturgico).
Questi in sintesi alcuni caratteri della riflessione mariana che hanno creato nella storia una certa tendenza quantomeno approssimativa, se non erronea, della mariologia. La “Maria” che viene fuori da questi ritratti produce un’immagine irreale, divinizzata, irraggiungibile e staccata dal respo del corpo ecclesiale e dalle dinamiche della fede. Ma non mi soffermo sulla questione teologia poiché sono sollecitato da amici ad intervenire sulla questione sociale cui accenno di seguito.
b)      In questi anni si è andata sviluppando una rilettura storico-sociale delle dinamiche che hanno accompagnato la riflessione mariana. Il tratto è principalmente femminista e anticlericale. Ma nonostante il pericolo di minimalizzazione questa lettura riesce a mettere a fuoco alcuni limiti della devozione mariana ovvero ciò che la devozione ha proiettato sulla figura di Maria (cfr. https://www.economist.com/erasmus/2013/12/23/sexing-divinity).
La tesi conclusiva è che il dogma della Immacolata concezione sia servito per protrarre quella prassi attraverso la quale «la Chiesa, nel corso dei secoli, ha amplificato e irrobustito le tendenze patriarcali già presenti nella società, a scopo politico, ovvero di controllo sociale» (https://thevision.com/cultura/8-dicembre/).
In altre parole, il culto a Maria sarebbe niente più che l’imposizione di un modello di virtù femminile basato sulla obbedienza, sulla purezza, sulla sottomissione e sulla disponibilità alla procreazione (matrimonio, ovvero mater munus, funzione della madre, del generare, in contrapposizione con pater munus –patrimonio– funzione del padre di famiglia, governare e amministrare).
In questa tendenza le virtù richieste “al femminile” vanno possedute ed esercitate alla perfezione, “fino alla morte”. Ne risulta che le donne che non seguono quel modello sono portate ad introiettare una certa inadeguatezza sociale che sfocia nella vergogna se qualcosa le spinga ad “essere e sentire” anche oltre quelle virtù; vergogna che determina numerosi sensi di colpa (spesso patologici scambiati per altro) e che riproduce un dispositivo simbolico preventivo così da formulare un controllo sociale sulle coscienze, sui corpi, sugli affetti e sulle intelligenze femminili. Questo dispositivo spostava dalla virtù (e dalla fede) l’essenza della eticità sociale: era l’onore (della famiglia) a dover essere difeso.
La lettura femminista ha probabilmente il merito di aver rilevato e rivelato i limiti di una devozione costruita sul falso culto mariano o almeno sull’ambigua e unilaterale immagine di Maria proposta da alcuni ambienti clericali e maschilisti (senza scendere nel particolare che forse alcune posizioni maschiliste erano dettate da ben altre inclinazioni “non del tutto maschili”).
A tal proposito sembra sintomatico che la donna venisse ritenuta “colpevole” anche in caso di “fuitina” non consenziente, ovvero di “ratto” a scopo di matrimonio: la violenza anche solo presunta e non reale era in qualche modo attribuita anche ad una responsabilità femminile secondo una dinamica di “colpevolizzazione della vittima”. La questione delle virtù, dunque, lascia gli spazi della “sessualità intima” imponendosi in quelli della “colpa sociale”, entrando cioè a far parte della coscienza collettiva col binomio sempre più prepotente e arrogante di “donna/Eva”, creando l’immagine di un essere sostanzialmente “portatore di colpa”. Le testimonianze a riguardo sono varie come ben mostra anche la narrativa teatrale del XX secolo (cfr. M. Mauriello, Drammi di genere. Femminile e maschile nel teatro di Raffaele Viviani, 2016).
È indubbio a mio modesto parere che, sebbene non fosse intenzione immediata delle prospettive mariologiche produrre un controllo di massa, l’effetto avuto sia stato proprio quello di un concreto (se non addirittura feroce) condizionamento delle coscienze e delle strutture sociali. D’altra parte, quale aspetto della vita sociale non mirava (e non mira) a condizionare i vissuti dei singoli? Tuttavia, va chiaramente segnalato che qui si trattava di un possibile controllo autoritativo sulle coscienze e limitante della libertà e delle identità femminili.
c)      A questo punto però è d’obbligo una sintesi delle prospettive del dogma mariano onde evitare che le riletture fondamentaliste cattoliche e quelle unilaterali femministe producano, in un modo o nell’altro, un “allontanamento” o anche un “disprezzo” della solennità odierna che, concretamente, sembra presentare più difficoltà del dogma dell’Assunzione. La questione è complessa: mi limito a brevi considerazioni. Mi sembra che il vero nocciolo della questione sia la “preservazione dal peccato”. L’incomprensione nasce dal fatto che si dimentica che la “preservazione” è fatta in “previsione” come espresso dalla dichiarazione del dogma su riportato. Maria sarebbe “preservata” in vista della “salvezza operata da Cristo per tutto il genere umano”. La tensione non sta nell’essere nata senza peccato ma nell’opera salvifica per tutti gli uomini che ha poi determinato la “bellezza” stessa di Maria; opera di cui la stessa “madre del Signore” ha beneficiato, da prima discepola. Maria di Nazareth, pur nelle condizioni e nei limiti della dinamica e della comprensione umana, ha creduto, sperato, seguito, capito, voluto con amore e straordinaria attrazione la storia, la vita e la morte del figlio Gesù. Ma, e questo è il nocciolo della questione, ciò che sarebbe successo “fino alla fine” l’ha preservata “sin dall’inizio”. Come dire, l’escatologia (quello che succede alla fine) è indice della protologia (quel che succede all’inizio) e viceversa. Il rimando tra “fine” e “inizio” è una dinamica propria della mentalità biblica (“fin dalle origini”, “all’inizio”, “in principio”, “avverrà”, “alla fine dei tempi”,…). In altre parole, la “bellezza totale di Maria” va considerata nella sua relazione storica e concreta col messaggio del “regno dei cieli” e con la sua dinamica che l’ha vista discepola fino alla fine. L’essere discepola di Gesù, donna e madre, lentamente e totalmente “presa” dalla sua “novella”, rende Maria “totalmente bella” (“tota pulchra”). Maria va ricompresa nel suo essere principalmente donna più che privilegiata. In questa dinamica non c’è posto per la contrapposizione “predisposizione-peccato-salvezza”; la dinamica essenziale sta tra “libertà-discepolato-identità”. È questa la figura di donna che emerge dunque dalla solennità odierna, una donna “pienamente umana”: decisa, libera, pronta, ma anche dubbiosa, per certi versi titubante, quasi disperata, pur sempre tesa alla novità evangelica. La “bellezza totalizzante” di Maria non sta nel non essere stata limitata, ma nell’essere pienamente donna giovane, timida, titubante, pensosa, riflessiva, seppur magnanima e coraggiosa, ma pur sempre una donna non superiore in senso squisitamente antropologico. Vedere Maria nella prospettiva dell’Immacolata concezione non significa vedere una giovane che non ha mai sbagliato (difficile essere veramente umano senza alcun errore) o che non ha bisogno di conferme (come suggerisce il suo andare da Elisabetta dopo la “visita dell’angelo”, Lc 1,39), o che non sia innamorata (se non ci fosse amore tra lei e Giuseppe non si comprenderebbe la scelta dello sposo di tenerla con sé, Lc 1, 26-27; e poi ricordo le belle pagine di don Tonino Bello…), o che non sia titubante (Maria non comprende Gesù, Lc 2,50) e dubbiosa (va coi parenti a riprendere, fermare Gesù, Lc 8,20). In altre parole, la donna Maria è immacolata perché è stata “sempre donna”, umana ma trasparente, in ricerca ma di fede, leale ma vera. Del resto, è questo ciò che insegna il dogma mariano: l’essere immacolati al cospetto di Dio è dato dalla fede in e dalla sequela di Gesù, ovvero l’essere donne e uomini pienamente consapevoli dell’amore di Dio e della bontà riversata su ciascuno (Ef 1,3-6.11-12). E questa “certezza di fede” in una matura considerazione di sé e del dono di Dio brucia ogni possibile limite, fin dal principio. In quest’ottica che mi piace indicare come personal-relazionale, il dogma mariano è un invito alla vita piena per tutti, poiché ciò che già è stato per lei può esserlo per tutti; ed è un invito all’accoglienza piena del dono di Dio, che tutto crea, tutto cambia, tutto perfeziona.


Alla luce di quanto detto si comprende che sono ben accetti gli auguri; soprattutto è lieto chi scrive di offrire un augurio con stima e riconoscenza a tutti coloro che “fanno il cammino delle immacolate e degli immacolati”, un cammino che vede tutti impegnati nell'essere veri, magnanimi e solidali. Fino alla fine.


Umberto R. Del Giudice


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