“Presenza di Cristo” e “restrizione di genere”




“Presenza di Cristo” e “restrizione di genere”

Note a margine di autorevoli post










Umberto R. Del Giudice




Nelle ultime settimane sono apparsi i post del prof. Andrea Grillo e quello del prof. Pierluigi Consorti su alcune questioni relative alla ministerialità e autorità delle donne nella Chiesa. Rimando alle importanti ed utili riflessioni sia del primo che del secondo.
Qui vorrei segnalare in modo particolare il post del prof. Consorti che riesce a tenere insieme brevità e concretezza giuridica.
Partendo dal Diritto canonico – egli scrive – è possibile esplicitare “le funzioni di servizio che caratterizzano gli ordinati rispetto a quelle assegnate a ciascun battezzato”, ed è la Chiesa che “determina le funzioni”, non il Diritto canonico.
La breve e articolata riflessione parte dal considerare una particolare categoria teologica molto cara al Concilio Vaticano II, quella di “presenza”. Il prof. Consorti ricorda come sia almeno riduttivo riferire alle sole specie eucaristiche tale categoria.
Alle affermazioni del prof. Consorti accosto, senza alcuna pretesa, una sintetica nota.

La “categoria della presenza” a partire dal Concilio Vaticano II
Il Concilio si esprime in riferimento alla “eucaristia” con vari termini; ad esempio “repraesentatio unitas fidelium” e “constitutio in unum corpus” (cf LG 3) e solo una volta in termini di “presenza” (anche se in modo articolato come si dirà appresso).
Quando si tratta di esprimere la categoria della “presenza di Dio” e “di Cristo” in relazione al Popolo di Dio, il registro sembra decisamente diverso. Ecco alcuni esempi:
  • -          Dio è presente nelle donne e negli uomini che più perfettamente si sono trasformati ad immagine di Cristo [Presenza di Dio e suo volto nei santi (donne e uomini): “In vita eorum qui, humanitatis nostrae consortes, ad imaginem tamen Christi perfectius transformantur (cf. 2Cor 3,18), Deus praesentiam vultumque suum hominibus vivide manifestat” (cf LG 50)];
  • -          è il Popolo di Dio che discerne i “segni della presenza o del disegno” di Dio [“Populus Dei, fide motus, (…) in illis sint vera signa praesentiae vel consilii Dei, discernere satagit ” (cf GS 50].
  • -          Assolutamente precisa ed inequivocabile è l’affermazione per la quale “il Cristo è presente nel suo corpo che è la Chiesa” [“Unus enim Christus est Mediator ac via salutis, qui in Corpore suo, quod est Ecclesia, praesens nobis fit” (cf LG 14)]
  • -          e nelle Chiese particolari presiedute dal Vescovo, sebbene piccole e disperse; in esse è presente Cristo e si costituisce la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica [“In his communitatibus, licet saepe exiguis et pauperibus, vel in dispersione degentibus, praesens est Christus, cuius virtute consociatur una, sancta, catholica et apostolica Ecclesia” (cf LG 21 e 26)].


Non si può tralasciare la “prima” costituzione conciliare che guarda alla Chiesa attraverso la lente fondamentale e fondante del rito: la Sacrosanctum Concilium.
In essa si legge che Cristo è sempre presente “in mezzo a noi” quale mistero presente e operante, soprattutto nelle celebrazioni liturgiche (cf SC 35).
Ma è dichiaratorio quanto si trova al numero 7, unico numero in cui si parla della “presenza sotto le specie eucaristiche” non in senso isolato e statico ma intensivo e dinamico in rapporto a tutti i “modi di presenza”, quasi elencandoli:
«…Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, essendo egli stesso che, “offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso tramite il ministero dei sacerdoti”, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda…».

Mi chiedo: l’occhio di un “giurista”, non “assuefatto” alla mentalità catechistica e realistica dell’eucaristia, come potrebbe tradurre in “norme” questi presupposti? Se si tiene conto della categoria della “presenza di Cristo” si potrebbero così declinare alcuni “canoni fermi”:
  • 1.      Cristo è presente nella sua Chiesa.
  • 2.      Nelle azioni liturgiche è presente Cristo, ovvero nei sacramenti e in particolare nella messa, soprattutto nelle specie eucaristiche, nella Parola, e nella preghiera e nella lode della Chiesa.
  • 3.      Cristo è presente nella persona del ministro attraverso il quale offre se stesso.

Già solo da questi brevi presupposti (para-normativi) non si potrebbe assolutamente dedurre che il ministro debba essere di sesso maschile.

Non solo: tra il ministro e la presenza di Cristo non ci sarebbe un nesso di mera rappresentanza simbolico-figurativa (il ministro è presenza del “Cristo-uomo”, ovvero “maschio”) ma un nesso antropologico di certa continuità ministeriale (la presidenza del ministro sacro istituito “è” azione di autodonazione del Cristo). In questo senso si leggerebbe anche quel “ex divina institutione”: tale inciso andrebbe considerato come volontà di presenza per l’autodonazione del Cristo e non come istituzione di un particolare “modus, figura, numerus et genus” del sacerdozio ministeriale. A tal proposito basti pensare che la Chiesa ha in passato considerato la possibilità di allargare o restringere i gradi dell’ordine sacro ma non ha mai messo in discussione che la “presidenza sacramentale” sia “presenza reale”: “quando il ministro battezza è Cristo che battezza…”, e non battezza solo il sacerdote o solo il ministro ordinato, ma “chiunque” se mosso con retta intenzione (cf. can 861 §2); il “caso di necessità” non distingue “sostanzialmente e necessariamente” il “ministro sacro” dal “fedele”, mentre la presenza del Cristo permane "sempre".
La presenza del Cristo è relativa alla “certezza della presidenza” costituita, soprattutto nel caso del sacrificio eucaristico, o funzionale, “in casu extrema necessitate", per alcuni sacramenti.
In ogni caso, il genus non comporta l’impossibilità di “presidenza per la certezza”.
Tenendo presente tale “architettura giuridica” è lecito domandarsi perché mai, dunque, la Chiesa non dovrebbe designare o costituire anche ministri-donne.
Solo una comprensione “cosistica” della categoria di “presenza” e un preconcetto antropologico-sessista che tiene irrimediabilmente insieme autorità e genere (maschile), può dunque ritenere inscindibile “presenza per autodonazione e santificazione” e “genus”. Il “corpo” del ministro è per la “reale presenza per l’azione di comunione” (dimensione sacramentale e antropologica) non per la “presenza reale nel genere maschile” (presupposto sessista).

Altre brevi considerazioni sulla categoria di “presenza”
Sarà strana dimenticanza o ben altro: il secondo capitolo della SC, de sacrosancto eucharistiæ mysterio, non cita mai la categoria della “presenza” né in riferimento alle specie eucaristiche né ad altro.
Al contrario, per ritrovare una qualche esplicitazione magisteriale, può essere utile riandare alla lettera enciclica Mysterium fidei del 1965. A proposito del concetto di “presenza”, Paolo VI scriveva, in riferimento alla presenza nell’offerta del “sacrificio della messa”, che: «tale presenza si dice “reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano “reali”, ma per antonomasia perché è sostanziale, e in forza di essa, infatti, Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente».
Cristo “è presente tutto intero come Uomo-Dio” nelle specie eucaristiche e non nel genere del ministro (attraverso il quale si dona).
Ciò che (giuridicamente) è rilevante, e che appare “essenziale” secondo l’inserto “per istituzione divina”, è che il ministro sia la “certezza dell’autodonazione del Cristo” e non “la certezza del Cristo-maschio”, e che non sia una “presenza” radicalmente differente dalle altre “presenze” ecclesiali, ma in continuità, ovvero, “per antonomasia”; ed è evidente che l'apice della "presenza cristologica" nella Chiesa è data dal volere salvifico di Cristo (ex divina institutione) non dal genere del suo corpo.

In breve
La “certezza di presenza per l’autodonazione” (ex divina institutione) dice la differenza “essenziale e non solo di grado” (cf LG 10) tra il sacerdozio ministeriale (funzione costituita per la comunione ecclesiale, cf can. 1008) e il sacerdozio comune (personalità costituita nella comunione ecclesiale, cf can. 96).
In altre parole, la certezza della presenza per l’autodonazione è legata alla persona e non al “genere” della persona. Questo potrebbe già disinnescare quell’impedimentum sexus dipendente più dalla comprensione di autorità connessa al genere maschile propria del tempo di Tommaso (come ha argomentato il prof. Andrea Grillo nella succitata riflessione) che dall’essenza del sacramento dell’ordine.
Fuori dalla categoria della “presenza” e usando quella di “consecratio”, alla certezza della presenza per l’autodonazione, il Codice (e la tradizione) lega anche quella della auctoritas per l’insegnamento e il governo (che diventa anche auctoritas per la stessa santificazione; cf can. 1008). Una “autorità” che, per usare la categoria teologica qui rievocata, non ha nulla a che fare con la presenza “in genere” che al contrario appare al can. 1024 in riferimento all’ordinazione dei ministri sacri.
Anche al di fuori di quest’ottica rimane del tutto incomprensibile e ingiustificata la stessa restrizione al can. 230, relativamente allo stabile servizio al ministero del lettorato e accolitato.
In ogni caso e per il momento, tenendo presente quanto si è detto attraverso la categoria della “presenza” relativamente al sacramento dell’ordine (per la comunione ecclesiale), non si vede come almeno il diaconato, che tradizionalmente non è “per il sacerdozio” ma “per il servizio”, debba conservare la canonica “restrizione di genere”.



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